Undici anni
dopo Jesus Camp (2006) Heidi
Ewing e Rachel Grady sono nuovamente attirate da una realtà
religiosa che, a dispetto del suo essere così chiusa e integralista,
ha residenza nella città più cosmopolita del pianeta: New York. One
of Us (2017) ci dice che in seno
alla Grande Mela c’è un baco retrogrado che prende il nome di
chassidismo, una frangia ebraica ultra ortodossa che demonizza il
progresso (Internet è il male assoluto: lo si urla in un mega raduno
all’interno di un campo da baseball con gli spalti stracolmi) e che
priva gli individui appartenenti alla comunità di tutta una serie di
robe che per noi sono ampiamente scontate e che potremmo riassumere
in un unico grande concetto: queste persone vengono private della
loro libertà. Le registe per approfondire il tema costituiscono una
narrazione tripartita che segue altrettanti individui in rotta con la
collettività yiddish per diverse ragioni personali, abbiamo un
dramma famigliare con Etty che chiedendo il divorzio perderà i
bambini (e questo si deve ad un sistema giudiziario piegato al volere
chassidico, sebbene ammetto di non aver compreso appieno come sia
possibile), un lento percorso di autoconsapevolezza da parte di Ari
attratto dal nuovo mondo, schifato dal vecchio (ha subito abusi) ma
non ancora del tutto pronto per un passaggio totale nella laicità e
infine Luzer, un uomo che ha abbandonato moglie e figli per fare
l’attore e vivere al di fuori della prigione conservatrice. Ad una
scorsa globale non ci sono grandi sorprese in One of Us,
Ewing e Grady propongono il loro punto di vista occidentale (che
ovviamente è anche il nostro) e condannare la cappa reazionaria
subita dai protagonisti è pressoché automatico.
Premesso
che per affrontare la vastità di un movimento religioso strettamente
collegato ad eventi storici ci vorrebbe una preparazione che di
sicuro non si può trovare in un documentario, io continuo a tenere
vivo lo spazio virtuale che state leggendo non per fare una piatta
descrizione degli argomenti trattati da un film (cosa avvenuta nel
paragrafetto sopra), ma per segnalare dei film che, come ha detto
Vanni Santoni riferendosi a dei testi letterari indispensabili per
chi ha in testa di fare lo scrittore, “hanno strappato territori
nuovi all’inesistente”. Un tempo, il tempo di Jesus
Camp ad esempio, non mi
importava troppo della grammatica e della sintassi nel cinema, non ci
pensavo, ero abbindolato dal racconto in superficie, poi, affinando
lo sguardo, l’azione di potatura dell’inessenziale ha fatto sì
che il metodo divenisse il centro delle mie attenzioni. E quindi che
dire di One of Us che
è un prodotto targato Netflix e che quindi ha una composizione
settata per essere accessibile dal vasto pubblico? Nulla, è
ordinaria amministrazione, è confezione uguale ad infinite altre,
non vi è ricerca strutturale né l’impiego di soluzioni che
possano far uscire l’opera dalla consuetudine. Non voglio passare
per un cine-talebano (o un cine-chassida giacché siam qua) perché
di bellezza ce ne può essere anche in oggetti che non per forza se
ne stanno in frontiera, e infatti One of Us
non lo giudicherei brutto,
solo che non è molto e neanche abbastanza, è giusto uno step oltre
il medio intrattenimento.
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