venerdì 29 luglio 2022

Desierto en tu mente

La fa facile la tagline sulla pagina IMDb di Desierto en tu mente (2017) definendolo un road-movie surreale, non che nell’esordio della videoartista spagnola Marta Grimalt non sia riscontrabile un tragitto geografico (nel caos indomabile si comprende almeno uno spostamento dalla Spagna agli Stati Uniti), però c’è così tanto materiale qui dentro e così tanto rimescolato che non si hanno altre scelte ad esclusione di: bollare sbrigativamente la faccenda come sterile onanismo giovanile, oppure interpretare la schizofrenia visiva come furore artistico, bulimico e difettoso ma pur sempre vivo. Cerco di pormi a metà strada senza però tentare di dare un ordine logico perché sarebbe fatica inutile: nell’impossibile intelligibilità dell’opera che è pervasa da un’anarchia indisciplinata si espandono a mo’ di cerchi nell’acqua suggestioni lynchiane (il tizio in maschera, alcune distorsioni sonore) o comunque riconducibili ad altri filmmaker che amano sperimentare pur avendo pochi mezzi a disposizione. Il tentativo della Grimalt è apprezzabile perché dopo tutto siamo buoni, certo è che, pur essendo questo un oggetto che si sfibra minuto dopo minuto, che si esfolia con gran trambusto, avremmo gradito un abbraccio connettivo che invece non si ritrova, a meno che non si voglia considerare la ragazza che gira con lo yo-yo il collante tra le situazioni e gli enigmatici personaggi che si avvicendano, però a mio modo di vedere non è un tratto che dà vera organicità. Alla lunga una tale sfrontatezza, sebbene compressa in giusto sessanta minuti, un po’ stufa.

L’aspetto di Desierto en tu mente si poggia su un girato in Super 8 che balla tra due estremi: il muto e l’avanguardia. La Grimalt osa parecchio e tempesta il flusso filmico di gingilli e accorgimenti da epilessia (c’è ad esempio una “cosa” ancorata sulla sinistra dello schermo che lampeggerà per l’intera durata della proiezione), strambi quadrati con all’interno altre immagini si sovrappongono all’immagine-madre, scenette nonsense segnano il cammino della giovane occhialuta (una è commentata da un’assurda intervista con voci modificate ad un tipo di nome Cocoliso che a quanto pare è la versione ispanica di Pisellino, il figlio di Braccio di Ferro), ingressi musicali a dir poco stridenti erompono furibondi. Io, al cospetto di siffatto scompiglio, dico che comunque la pellicola non si leva di dosso quell’aura di amatorialità di cui è intrisa, una roba che si avverte messa in piedi con amici e conoscenti che magari saranno anche bravi professionisti ma che non riescono a compensare le velleità sperimentali di Marta Grimalt perché probabilmente nel 2017 le mancavano delle basi, sia economiche che pratico-teoriche. Riconoscendo l’intraprendenza della maiorchina, e suggerendole umilmente di proseguire negli studi sul cinema, il mio pollice si alza timidamente per un finale dal sapore liberatorio, il che non va letto in maniera negativa, al contrario, si sente uno scioglimento, un’apertura dopo un’immersione grigia, disturbata e intermittente.

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