lunedì 20 maggio 2019

No No Sleep

Mi risulta impossibile esprimere concetti originali su Wu wu mian (2015) poiché quanto avrei da dire l’ho già ampiamente sottolineato affrontando sia Walker (2012) che Journey to the West (2014), ed una tale personale tendenza a non trovare nuovi appigli interpretativi per rendere ciò che state leggendo diverso da ciò che avete già letto è sintomatico di come il progetto “monaco errante” di Tsai Ming-liang sia un’idea chiusa e autoreferenziale di cinema oltre che, e qui la ferita si presenta immedicabile, ripetitiva in un modo che ti delude proprio: Tsai da buon auteur può permettersi di filmare i suoi capricci più intransigenti ma, eccheddiamine!, l’importante è che partorisca sempre buoni film a prescindere da quale sia il formato, la tecnica, la storia o la non-storia che li sostanzia. Ora, con l’ennesima riproposizione di Lee Kang-sheng in outfit monacale che bradipescamente passeggia in una città percorsa ad una velocità supersonica si dà una lettura facile dell’antitesi che fonda l’intero disegno, così come è facile l’accostamento tra i minuti iniziali con Lee che avanza flemmatico su un ponte e il successivo cambio scena con la camera di Tsai posizionata su un treno che fende la metropoli sberluccicante, onestamente non mi aspettavo che il regista taiwanese potesse scivolare nel manifesto, nel lampante, impressioni che se inserite nella cornice iterativa precedentemente vista incrementano di non poco il carico di insoddisfazione.

Potrete pensare che insomma, non sarà l’avvicinare due sequenze visibilmente opposte ad inquinare il gradimento spettatoriale, certamente no se non fosse che No No Sleep dura un trentaquattro minuti di cui quindici si concentrano proprio sull’esposizione del suddetto incompatibile binomio. Il film non si solleva nemmeno dopo perché Tsai, sulla scorta di Journey to the West, pone un altro essere umano nell’orbita del religioso tartarughesco, un tempo avremmo potuto sperticarci in lodi enfatiche sulla capacità mingliangana nel modellare artisticamente incontri fra uomini soli (immagino il me stesso di un tempo battere sulla tastiera queste parole: “… e nella fissità del quadro all’interno della piscina si è quasi spinti ad avvicinare le due anime sullo schermo, a desiderare che il cinema possa essere ancora un luogo di unione”), però, purtroppo o per fortuna, le cose cambiano irrimediabilmente e nello sfiorarsi tra Lee e l’altro tizio di lirismo ne ho visto ben poco, ciò che si vede è un più prosaico atto onanistico di un direttore d’orchestra che continua a concedere bis senza che nessuno glieli chieda, e sulla debolissima immagine contrapposta del finale dentro l’albergo capsulare dove il giovane non prende sonno (“ooooh, magari sta pensando a Kang-sheng ”) mentre il protagonista dorme della grossa, non si riesce ad aggiungere niente, se non uno sbadiglio.

P.S.: questo commento risale all’estate del 2017 (sì, avete letto bene) e ad oggi Tsai ha dato alla luce altri esemplari del suo cinema. In tutta onestà non so se li vedrò mai, ad ogni modo sarei ben felice, eventualmente, di rimangiarmi ogni parola del presente scritto.

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