sabato 15 settembre 2018

The Itching

Essenzialmente The Itching (2016) si fonda su un piccolo paradosso: nell’illustrazione antropomorfa degli animali colui che in natura è universalmente riconosciuto come un predatore, il lupo, è invece qui una remissiva lupetta che tenta dei timidi approcci con i compagni faunistici i quali, a dispetto della loro concreta condizione di prede, i conigli, per Dianne Bellino sono dei festaioli che sniffano e ballano tra i boschi. L’innesco del corto si genera dunque dalla protagonista che cerca di instaurare un rapporto, anche frivolo come può essere un incontro all’interno di un party, con l’altro mammifero, dall’ipotizzabile blocco psicologico la regista, praticamente esordiente e aiutata per l’occasione dall’animatore Adam Davies, estrae il nucleo, visivo e concettuale, del proprio lavoro: una ferita, una piaga sulla coscia sinistra che prude e che non vuole saperne di rimarginarsi, dentro ci sono un po’ di cose riconducibili all’eventuale intimo personale del personaggio (l’arcobalenica gamma di colori che si intravede, cenerentolianamente i sogni sono desideri... colorati) e, soprattutto, all’inventiva della Bellino che riversa nel taglio un laghetto con tanto di pesci.

Tutto bene tutto bello? Non proprio. Evitando di fare le pulci ad un micro-oggetto del genere, il sentore globale è che The Itching abbia poca spinta e che, nel grande recinto della stop-motion dove razzolano triliardi di prodotti simili, scivoli nell’anonimato. La tecnica utilizzata denominata in inglese claymation (la medesima che fu di Pingu o del mitico Celebrity Deathmatch che allietava le seconde serate su MTV) non eccelle per particolari motivazioni, a fronte delle solite carinerie a cui il mondo dell’animazione contemporanea ci ha ampiamente abituato, mancano degli sprint estrosi capaci di farti dire: “wow”, inoltre ho ravvisato briciole di ruggine nei muti confronti tra i soggetti in scena, l’assenza della componente dialogica non è sopperita in toto dalle movenze dei pupazzetti. Inoltre avrei desiderato che il gesto “estremo” compiuto dalla sofferente lupacchiotta avesse un’origine, un filo conduttore con quanto si vede fino a quel momento, invece il raptus pare piuttosto improvvisato e messo lì giusto perché, in qualche modo, lo squarcio doveva ricomporsi. Se la Bellino fosse stata italiana (e visto il cognome potrebbe esserlo di origine) allora avrei potuto brillantemente (sono ironico) dire “ecco, era l’unico modo per accettarsi e farsi accettare”, ma dato che la ragazza vive e lavora a New York il gioco di parole non regge e lo stolto recensore che l’ha pensato leva subitaneamente le tende.

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