È però inutile girarci in giro, il cuore di The Chechen Family pulsa nelle riprese effettuate durante il dhikr, una danza collettiva islamica dove i membri (le donne e gli uomini non possono stare assieme a quanto si vede), ballando sul posto e seguendo un ritmo forsennato, ripetono una litania che nel suo ossessivo ripetersi diventa ipnotica. Il cinema ha questa capacità immersiva di trasformare una normale proiezione in un’esperienza acquatica, da vivere in apnea, e anche qui accade ciò: non è che Solá riprende noncurante e dall’esterno delle persone che danzano, all’opposto si incunea nel compulsivo assembramento, si appiccica letteralmente ai volti sformati dalla fatica, alle camicie fradicie di sudore, capta respiri ad un passo dallo spasimo. Ci fa vedere, anzi ci fa sentire (e sentire è sempre qualcosa che va oltre il vedere), la forma estatica della preghiera, lo stato di trance a cui, credo a prescindere dalla religione di appartenenza, si giunge per mezzo di un iter definito, ed il risultato è il fiorire di un’energia travolgente tanto da travalicare, nel caso in esame, la barriera dello schermo, sicché non potremo dire di essere stati lì in Cecenia, nel bel mezzo di un tambureggiante rituale musulmano, ma quasi, perciò: grazie infinite Martín Solá, è stato assolutamente esaltante.
El custodio – Rodrigo Moreno
7 ore fa
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