
I primi
venti minuti di Sapatos Pretos (1998) sono molto simili a
quello che poi sarà Noite Escura (2004), ovvero un set
occluso in un solo ambiente, a ’sto
giro una sala da ballo, dove João Canijo rimbalza in maniera
forsennata con la sua mdp da un personaggio all’altro. Poi, una
volta usciti dal locale, si entra in un altro spazio parimenti
angusto, mentale e non fisico, da cui non si uscirà mai: una
relazione avariata tra un gioielliere e sua moglie Dalila. Sembra
abbastanza evidente che al regista portoghese interessino fin dagli
albori dei rapporti sentimentali in via di disfacimento, amori al
capolinea, tradimenti, relazioni troncate, e una tendenza ad impepare
le varie situazioni con risvolti (leggermente) dark, il punto è che
in questi lavori giovanili tali tematiche di studio vengono
approcciate in modo... strano, alla base pare esserci un’impostazione
teatrale con un registro recitativo fortemente ostentato (a volte fin
troppo), ma la resa che si ottiene ha un che di laterale e non di
frontale, pur parlando di oggetti se vogliamo non distanti da uno
sceneggiato televisivo il risultato naviga lontano da un possibile
piattume così come è lontano da una forma di realismo che si potrà
rintracciare in Blood of My Blood (2011) o É o Amor
(2013), boh, non semplice farsi un’idea definita, forse qui
subentra anche la mancanza di una conoscenza approfondita della scena
lusitana 90’s ma se mi chiedessero quanto vale la pena recuperare
gli esordi di Canijo risponderei in tutta onestà di indirizzare lo
sguardo altrove.
In Sapatos
Pretos spicca una lodevole cura
della scenografia casalinga con un appartamento coniugale che è
sempre inzuppato nell’oscurità e in cui l’incongruenza aleggia
(la tv sintonizzata su canali angolofoni), non male inoltre
l’applicazione di un protocollo drammatico che ha il picco in una
violenza sanguinolenta ai danni della donna. Però, al pari di Ganhar a Vida (2001), ho trovato nella
pellicola sotto esame il medesimo macroscopico difetto, ossia una
scrittura che in termini di narrazione non va. Cioè, stringi stringi
qua parliamo di un banale triangolo amoroso con virata nel nero. C’è
dell’altro? A chi scrive è parso di no. Passi la costruzione che
porta all’uxoricidio, tuttavia a fatto avvenuto il film si
affloscia e tenta, invano, di compiere una giravolta esibendo il
ruolo doppiogiochista di Dalila, un’operazione che non rende e
aumenta il tasso di stanchezza con cui ci si trascina verso il finale
dove, tra l’altro, si vuole ulteriormente rimarcare il ruolo di
femme fatale che manipola i suoi uomini (sarà il turno del
poliziotto) ma che non riesce a fare altrettanto con noi spettatori.
Allora, per riallacciarmi alla domanda che chiudeva il paragrafo
soprastante, se proprio si deve, l’unico titolo di Canijo pre-2011
che ha solleticato qualcosa nel sottoscritto è stato Filha da Mãe (1990).
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