Prima di riprendere con ritmi più umani la scrittura del blog, piccola parentesi musicale con un video che ho visto passare alla tele e che mi è parso immediatamente adorabile.
Non abituatevi troppo bene, domani o dopo si parla di un serial killer…
Ad un certo punto Nemo Nobody (N. N., No Name) osserva su uno schermo l’accelerato decomporsi di un cesto di frutta; poco prima, o forse poco dopo, si era visto un topolino morto che progressivamente veniva mangiato da un ammasso di vermi nati dal suo deterioramento.
La Jetée è un film del ‘62 di nemmeno mezz’ora che parla di e con frammenti.
Non poteva che arrivare dalla Corea del Sud questo cartone animato (quanto è riduttivo definirlo così?) geniale per contenuti e… contenitore. Già perché la tecnica di animazione utilizzata, di cui non sono riuscito a trovare informazioni in rete e perciò vi dovrete accontentare delle mie ignoranti parole, è originalissima. Ad occhio profano sembrerebbe che i registi, ben 5!, abbiano disegnato su dei cartoncini poi opportunamente collegati, sovrapposti, ritagliati fra loro. Il risultato è esteticamente brutto, strano e straniante, ma anche e soprattutto convincente.
Dei contenuti è semplice: una trovata migliore dell’altra.
Inaspettatamente nell'universo tsaiano smette di piovere. I/l cinema sono/è chiusi/o dopo Goodbye, Dragon Inn, e a Taipei è periodo di grande siccità che la tv suggerisce di sconfiggere con il succo d’anguria. Sembrerebbe, dunque, che qualcosa sia cambiato davanti alla mdp di Tsai. Ma è solo apparenza; perché sebbene la sua filmografia si mostri liquida in superficie, nel profondo i suoi film sono gelidi quadretti di cristallizzata solitudine, e Il gusto dell’anguria (2005) non sfugge a questa amara visione. La presenza del cocomero, che ricordo essere un frutto costituito dal 90% di acqua, si presenta fin da subito come una divisione, un ostacolo tra le persone. La prima sequenza è sintomatica perché Hsiao-Kang, ora porno attore, “masturba” l’anguria posta tra le gambe della donna come se fosse un sesso femminile. Si palesa subito una distanza, più fisica di quella in Che ora è laggiù?(2001), ma non per questo più semplice da ridurre, anzi proprio per essere caratterizzata da una (falsa) vicinanza corporale appare oggettivamente impossibile da diminuire. L’insistenza su questo frutto unita all'improvvisa allegria dei balletti, per i quali ci sarebbe voluta una sottotitolatura, parrebbero versare un goccio di positività nella conca nera di Tsai. Anche qui è solo apparenza.
Un’opera in cui lo spazio e il tempo contano molto.
Siamo abituati ormai a vedere il (e nel) cinema la mediazione con la realtà. Ovvero: ci sediamo ad un tavolino di fronte a lui, e se vuole raccontare cose realistiche ci deve convincere di questo. Tanto più esso si avvicina al concetto che abbiamo di reale, tanto più ne veniamo coinvolti, almeno in linea teorica. Si tratta in ogni caso di un’illusione a cui lo spettatore si assoggetta consapevolmente poiché anche nell’opera più realistica potrà rintracciare una tecnica, un metodo, un qualcosa che segni in ogni caso il confine fra verità e fiction.
Come va?… Uff, domanda di circostanza che genera sempre una risposta d’eguale caratura, non ho mai sentito rispondere qualcuno “sto male”. Comunque, un po’ di tempo dal mio ultimo post è passato, e per cercare di recuperarlo il blog sarà teatro per una settimana di una mini rassegna che definirei ghezzianamente Magnifica ossessione. Da questo giovedì fino al prossimo ogni giorno sarà scandito dalle mie parole su un film degno d’attenzione. C’è della roba parecchio interessante.
Vivo in una casetta a due passi dal bosco. Me l’ha lasciata mio padre facendomi promettere che non l'avrei mai venduta a nessuno. Ho mantenuto la promessa. Sono alto un metro e novantuno per ottantanove chili, faccio il taglialegna. Al mattino mi alzo che ancora non è l’alba, lavoro fino al pomeriggio tardi, a volte prima di rientrare mi fermo in paese a bere qualcosa, a volte no. Alla domenica vado a messa, non mi piace molto però papà ci teneva tanto che io ci andassi, così ci vado che non vorrei mai dargli un dispiacere da lassù. E poi ultimamente prego tanto Gesù perché è sparito il mio gatto rosso Gogol. Il babbo diceva sempre che Gogol era un gatto speciale perché sa parlare con gli occhi, io non lo so, ma mi sembra che tutti gli animali sono capaci di dire con lo sguardo, siamo noi che mica riusciamo a capirli. Comunque a Gogol ci voglio tanto tanto bene perché mi fa compagnia di notte, solo che saran quattro giorni che è scomparso. Sì, a lui piace un sacco gironzolare per il bosco, ma appena c’ha un po’ di fame viene a miagolare dalla porta. Spero che torni presto perché mi manca molto.
Entriamo timidamente nella stanza di Lisandro Alonso. Ad un primo sguardo la camera è spoglia, assolutamente essenziale. Ci sono alcune piante e un sottofondo imprecisato di animali, più in là c’è un fiume giallognolo che scorre lento.
Madre e figlia di quattro mesi. Sole e senza soldi. La piccola piange in continuazione, anche durante le audizioni della giovane mamma che non avranno mai esito positivo. E lei continua a piangere, poi smette. Per sempre.
Fuori diluvia (è un film di Tsai), e dentro al piccolo cinema che sta per chiudere i battenti alcune persone assistono alla visione di Dragon Inn (1967), chambara-movie diretto da King Hu, autore anche de Le implacabili lame di Rondine d’Oro (1966). Nel frattempo la cassiera zoppa si aggira nel labirintico retro del cinema cercando il solito Lee Kang-sheng nelle vesti di proiezionista solitario (d’altronde, è un film di Tsai).
Credo in poche cose, ma in settembre ci credo. Sempre, ogni cazzo di anno.
Julian (Jason Clarke) è un brillante manager in carriera che non riesce ad ottenere gli stessi risultati nella vita privata. Problemi con la moglie sulla via del divorzio, vizietto di alzare le mani quando sarebbe meglio tenerle in tasca. Poi incontra Michael che a dispetto d’un nome maschile è una donna che trasuda sensualità da ogni follicolo pilifero (ci credo, è Paz Vega!), e la sua vita cambia.