
Il mio
viaggio di inverno, è ancora Vincent Dieutre a direzionarci verso un
cinema che non può fare a meno di essere rigorosamente personale e
film dopo film si comprende di come l’autore francese in verità
abbia girato soltanto un’unica opera, caratteristica, questa,
propria dei grandi.
Mon voyage d’hiver
(2003) ha forma e metodologia vicine alle pellicole precedenti,
perciò abbiamo nuovamente a che fare con un coacervo di ricordi che
si palesano in stretta correlazione ai luoghi geografici, se prima
era l’Italia a far sanguinare il cuore di Vincent, adesso è la
Germania che viene attraversata durante un freddo inverno, ed ogni
città, ogni tappa, diventa la rievocazione di un amore sofferto. Il
link con Leçons de ténèbres (1999)
è davvero forte perché anche qui c’è un perno culturale (da
Caravaggio ai compositori romantici) utilizzato per dare un ritmo
preciso al film, infatti i passaggi materiali da un posto all’altro
sono ovviati dall’inserimento di sequenze adibite a rafforzare il
legame musicale e lirico. Una differenza che spicca è però data
dalla presenza fisica di Dieutre in scena, è già successo prima ma
in Mon voyage d’hiver
è proprio una costante, ciò alza di un filo il velo della finzione,
ovvero: se, ad esempio, in Rome désolée
(1995) il flusso di memorie combaciava con un assorbimento della
realtà (brandelli urbani, di repertorio, ecc.), ora la figura di
Dieutre davanti alla mdp sempre in compagnia del figlioccio trasmette
un non so che di impostato nonostante, va detto, non ci sarà mai
alcuna interazione dialogica tra i due e quindi, in un certo senso,
le porzioni che li vedono sullo schermo, al pari di quelle in cui VD
è con i suoi amanti, sono a loro volta delle finte
istantanee d’archivio, ma il gioco percettivo non può rendere
nella stessa maniera.
Per il resto non vi è granché da aggiungere a quanto il
sottoscritto non ha già sostenuto, ad esclusione del maggiore
minutaggio che diluisce la materia filmica producendo quello che in
fondo è uno schema fatto di uguali ripetizioni, Dieutre dimostra
sempre una sensibilità ammirevole nel denudare se stesso ed il suo
personaggio (ammesso che vi sia una distinzione) servendosi del mezzo
cinema. Trovo altresì toccante la sua scomposizione del sentimento in
immagini e parole, è probabile che per lui, e di riflesso per noi
spettatori, il richiamo a persone che hanno fatto parte per un certo
periodo della sua vita abbia una funzione terapeutica, ricordare non
lenisce mai un dolore, ma filmare un ricordo, o scriverlo, o
musicarlo in un qualche modo sì. Interessante è poi Itvan ed il
rapporto che ha con lui, forzando forse un poco l’esegesi si può
intendere il ragazzo come un riverbero del regista, un suo fantasma
giovanile che compie nel presente un viaggio del passato, c’è in
effetti una fusione di piani temporali se non ho male inteso, ad un
certo punto vediamo Dieutre che dorme insieme ad un altro uomo e
Itvan che li riprende con una videocamera, quel momento a chi e a
cosa appartiene? È una reminiscenza? È ieri? È oggi? Sia come sia,
è avvertibile un gradito sfasamento destinato a certificarsi
nell’ultimo piano fisso di una strada berlinese che nel giro di una
sovrimpressione ritorna indietro nel tempo, una breve sequenza
manifesto del film e di tutta la poetica che la sorregge.
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