
Ed ecco il
predecessore di Viejo calavera (2016), anche Juku
(2011), infatti, ha come set principale (e qui è pure l’unico
visto che non ci sono riprese esterne) l’oscurità di una miniera
che si trova a Huanuni, una città boliviana situata ad un’altitudine
di circa quattromila metri sul livello del mare. Il titolo si
riferisce ad una parola che nella lingua locale identifica i “mine
thieves”, ovvero uomini che nottetempo entrano nella cava per
rubare ciò che riescono, e il corto inizia proprio così: un
pannello nero si squarcia e una luce avanza verso di noi rivelando le
pareti rocciose del giacimento, è uno juku che in fretta e furia
piccona delle pietre e se le infila nello zaino per poi sparire da
dove è venuto, nelle tenebre. È un incipit di tutto rispetto che
suggerisce la sfida raccolta da Kiro Russo, quella di fare cinema in
un luogo a dir poco angusto senza illuminazioni artificiali, le
uniche fonti luminose che permettono di vedere quanto accade nel film
sono le pile poste sui caschi dei minatori. Se si vuole tirare in
ballo l’atmosfera, questa entità non tangibile che tanto
suggestiona, allora Juku ha
le credenziali per poter sostenere di averla, sì, l’ambientazione
fa molto (se non -issimo), ma comunque Russo è abile nel farci
digerire la situazione senza particolari forzature aderendo il più
possibile alla realtà circostante, solo la scelta di apporre una
sorta di costante riverbero musicale sulle immagini potrebbe dare
adito a piccoli dubbi, tuttavia nel complesso l’equilibrio
raggiunto mi è parso piuttosto stabile e credibile.
Rispetto
al lungometraggio d’esordio la vena narrativa, che già era
piuttosto ridotta all’osso, viene pressoché eliminata, bene, è
quello che sempre desidero da umile spettatore. Per fornire delle
coordinate orientative il regista coglie un gruppetto di lavoratori
che in un momento di pausa discorre sui pericoli (anche
soprannaturali) che si annidano nella miniera, non ci sarebbe nulla
di strano se non che le voci degli uomini paiono precedentemente
registrate e solo in seguito inserite sopra il materiale girato, è
un’inezia però è sufficiente a sortire un effetto, un mood,
un’impressione dislocante. E la cosa prosegue anche durante la
scena del soccorrimento fino a che le parole lasciano il posto ad una
specie di distorsione elettrica che accompagna con solennità
l’ipotetica uscita dai claustrofobici corridoi (che ad ogni modo
non avverrà, i quattro più il moribondo spariscono nel chiarore
abbacinante del giorno, noi ci fermeremo un bel po’ di metri
prima), be’: niente male. Anche perché poi è servito il
controfinale: a prescindere dal ladro e dall’incidente, il lavoro
continua, tra trivelle idrauliche, pesanti carrelli da spingere e un
frastuono infernale.
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