Se qualcuno non ha chiaro il ragionamento del sottoscritto posso fornire una prova empirica: perché dentro Sweetgrass c’è una piccola parentesi di deragliamento percettivo, accade verso il sessantesimo minuto con l’arrivo della notte, la risoluzione video si abbassa, il quadro si riempie di ombre, ovine o umane poco cambia, l’oscurità prende il largo e delle luci, di un fuoco o di una torcia, eruttano dal nero, in un campo lunghissimo l’attacco di un orso, non si vede l’animale ma solo le sue pupille al cospetto di un’altra costellazione mobile: quelle delle pecore, la scena, seppur ammantata nel buio, è abbastanza di facile lettura eppure la sensazione di oltrepassare una certa trincea razionale permane, non è un momento bensì IL momento che da umile spettatore bramo, Leviathan sarà praticamente tutto così, qui si ha soltanto questo segmento capace di strappare la cortina documentaristica, non è molto ma ci si può accontentare anche perché il resto si articola in un’impostazione ampiamente sufficiente che a lungo andare riesce perfino a toccare qualche sfumatura personale dei mandriani (divertente una telefonata con la madre lontana), oltre ovviamente a persistere nel cuore argomentativo nonché estetico della pellicola: la migrazione verso il pascolo estivo. Se vogliamo essere buoni la lenta traversata di valle in valle (ho letto di un viaggio lungo oltre duecento chilometri) ha una sua epicità (per un fattore congenito e perché non ce ne sarà un’altra dopo), la narrazione concreta, selvatica e diretta che ne risulta si riversa nel nostro recipiente, quello che chiediamo di riempire ad ogni nuova visione, senza tracimare.
Duse – Pietro Marcello
50 minuti fa
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