sabato 18 luglio 2020

Munyurangabo

Sono dovuto andare a vedere dove fosse il Ruanda sulla cartina dell’Africa perché, in tutta onestà, ignoravo la sua posizione geografica, e Google Maps mi ha detto che sta lì, sì lì in mezzo tra l’Uganda ed il Burundi, nel cuore di un Continente che non conosciamo se non per gli echi telegiornalistici di guerre e atrocità varie che arrivano in Europa come cronache lontane (impattando poi brutalmente con il risultato conseguente: l’immigrazione), per cui prima di ogni giudizio analitico mi sento di ringraziare Lee Isaac Chung per avermi portato , in una delle tante terre riarse dal sole equatoriale dove le case sono fatte di fango e non hanno nemmeno un tetto.
Munyurangabo (2007) è un film basico, narrativamente utilizza degli elementi che principiano le storie fin dalla notte dei tempi, però il risultato è tutt’altro che dozzinale, nella visione del regista americano, discretamente personale con un occhio rivolto al documentario e l’altro ad una leggera contemplazione, si crea una vicenda in cui serpeggia un senso di attesa che protrae il possibile innesco, e quando capiamo che tale attesa diventa esattamente il racconto principale scivolano in secondo piano le mire di Ngabo e risalgono in superficie i veri fattori portanti dell’opera: un rustico ritratto famigliare, asciutto, amorevole, ridotto in un minimalismo che comunque contiene molto, e, allargando la prospettiva, il ritratto di un Paese che ancora non ha smaltito le scorie di un orrore recente (il padre e Ngabo che si lanciano reciproche accuse) e che galleggia in una povertà, per noi satolli spettatori occidentali, ammutolente.

Come profetizzato con il commento di Abigail Harm (2012), il debutto nel lungometraggio di Chung è ben diverso dalla successiva pellicola ambientata negli Stati Uniti, Munyurangabo al di là di essere un po’ “verde” e magari non troppo rifinito (ci sta, pare sia stato girato in soli undici giorni!), possiede ad ogni modo una struttura interessante che quasi sorprende, infatti per buona parte della proiezione siamo orientati a considerare Sangwa e i suoi legami di sangue il motore di tutto, in realtà, nel momento in cui il film si schiude, capiamo che il vero protagonista fino a quel momento latente è Ngabo (ovvero il diminutivo di Munyurangabo, ci sono arrivato giusto alla fine), e quando abbandona l’amico per compiere una specie di vendetta Chung alza il tiro indorando il cammino del ragazzo col machete di una polvere onirica (il sogno che riavvicina i due ragazzi controbilancia la possibile realtà dell’ultima immagine: si sono davvero riuniti?), non accade niente eppure l’atmosfera si pregna di una piccola solenne epicità, capiamo, in fondo, che quanto abbiamo osservato è un dettaglio che riproduce un disegno più grande, quello di una nazione invischiata ancora nelle vendette tribali e nell’odio. La lunga poesia del giovane al bar, tanto logorroica quanto struggente, è un canto di libertà letteralmente violentato dal fotogramma susseguente: Ngabo in piedi, immobile, che impugna il coltellaccio. Tuttavia ritengo che Chung in conclusione abbia voluto trasmetterci anche un briciolo di speranza, l’omicidio non si compie, il cerchio di ritorsione è interrotto da un ragazzino che potrebbe essere, anzi, senza potrebbe, che è il futuro.

Sputare responsi da dietro una tastiera è sempre facile, si può dire che Munyurangabo presenti delle imperfezioni, ma, dicendolo, non si tiene conto di un contesto produttivo che si immagina parecchio complicato (Chung si era recato in Ruanda perché la moglie faceva lì la volontaria), ed anche solo a livello burocratico (visti, permessi, ecc.) concretizzare un’idea in un esemplare di cinema è già un risultato notevole, se poi aggiungiamo le plausibili difficoltà comunicative e l’ingaggio di gente comune che mai era stata davanti ad una videocamera, allora il regista coreano-americano penso debba ritenersi ampiamente soddisfatto, e noi con lui perché il suo lavoro ha un equilibrio e una compiutezza che oggetti più altisonanti non hanno. Inaspettatamente, una bella sorpresa.

Nessun commento:

Posta un commento