mercoledì 8 luglio 2020

Granny’s Dancing on the Table

Due feti riprodotti in stop-motion si strangolano nel grembo materno, l’incipit di Granny’s Dancing on the Table (2015) detta già dall’inizio la linea emotiva del film: è tutta una sofferenza, trasversale e congenita, hanno sofferto le nonne, soffrono i figli, soffriranno i nipoti. Bada però: il secondo lavoro della svedese Hanna Sköld è improntato alla rappresentazione e rappresentare il dolore, sport nazionale dell’arte in generale dai tempi di Omero, rischia l’inflazione fruitiva; qui ci si può sdoppiare come tale è la natura dell’opera, vestendo i panni del Magnanimo: be’, però l’appaiamento tra il rivolo reale e quello del ricordo vale una visione perché impepato da questa faccenda dell’animazione, nei pupazzi sgraziati si modella un dramma famigliare che, pur non c’entrandoci niente, mi ha ricordato una possibile saga famigliare stile romanzo sudamericano, grandi colpe che si tramandano come una malattia (la Nonna si accoppia con uno sconosciuto, l’origine è lì), destini simili che si ripetono come una condanna (la mamma ed Eini lontane dal focolare) e la prepotenza degli uomini che soverchia (lo zio come il padre: è lo schiaffo che comanda), in sostanza: un ventaglio di sentimenti tutti inclini all’afflizione. Ma, vestendo i panni del Polemico: mmm, però se accantoniamo l’idea di strutturare la vita della Nonna per mezzo dei pupi quanto corrisponde in termini di buon cinema non è che si ricorderà ad imperitura memoria, la gestione del flusso in live action con ragazzina efebica e padre padrone pronto a farla a fette ad ogni occasione non ha le qualità per scolpirsi nello schermo, ne abbiamo viste troppe ormai, tra urla e sussurri, per uscirne fuori inermi.

È facile trovarsi a metà del guado, distanti nella stessa misura da un’opinione opposta o giù di lì all’altra. L’acqua, cari amici, è tiepida. Al pari della palette di colori scelta da Ita Zbroniec-Zajt, direttrice di fotografia polacca assoldata da Frammartino per Alberi (2013), che fornisce una tessitura estetica vicina alla concezione che si ha di un’ “atmosfera” scandinava, e pari, ovviamente, all’essenza del film in sé che continua a dibattersi (ma lo si sorveglia facilmente, è docile in fondo...), a farti propendere per un’ammirazione, sebbene contenuta, verso l’ampio respiro generazionale che riesce a trasmettere impiegando appena quattro fantocci di cera, e una correlata noncuranza, ugualmente misurata, nei riguardi del disegno globale che alla fine si profila. Perfetto, ho praticamente ripetuto i concetti del paragrafo soprastante cambiando qualche parola, non è affatto un buon segno, se un film, in sede di analisi, fa scivolare nell’afasia, quindi è bene non perdere ulteriore tempo, solo una cosa mi va ancora di sottolineare: esattamente come la storia nella sua totalità si dimostra anodina pur tentando l’affondo nella tragedia dopo un baloccamento tra fiaba e memoir, anche il nodo umano (e narrativo) relativo al rapporto mnemonico-epistolare tra Eini e la Nonna si barcamena nel sentire medio, ma caruccia, comunque, la figura della nonnina sprint che si è goduta la vita più dei suoi parenti, è lei l’unico personaggio ad aver spezzato la catena dell’esistenza ritirata, e la Sköld lo rimarca con la danza nei titoli di coda.

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