Lavorare sul
folklore come fece anni fa Petrov per
Rusalka (1997), anche
Anna Budanova rivisita una leggenda popolare (non appartenente alla
Russia per quanto si legge in giro) d’ambientazione acquatica, ma
in
Among the Black Waves (2016) al posto delle sirene ci sono
delle donne con il manto da foca (o delle foche dall’imbottitura di
donna, fate voi) che attirano l’attenzione dell’uomo di turno,
esattamente un
uomo: cacciatore/pescatore, padrone di un cane,
ladro della libertà altrui (leggi: della libertà femminile). La
regista Budanova per imprimere nel video la nera portata di una
storia del genere sceglie delle tonalità cupe sfumate in un
carboncino che non ammette colori oltre il bianco e nero, se non uno:
il rosso del sangue. È una vicenda mignon, compressa nel formato del
cortometraggio, che non lascia particolare movimento agli oggetti
narrativi, ma che comunque trasmette quanto le interessa dire, ed il
merito, non a caso, è tutto da rintracciare nella tecnica utilizzata
che permette l’accesso ad un’atmosfera plumbea eppure non
funebre, in un qualche modo viva tanto da assomigliare alla pregressa
visione di
Däwit (2015).
Che
cosa ci rimane dunque di Among the Black Waves?
Oltre alla scontata ed ennesima conferma dell’animazione
contemporanea come chiave creativa per accedere a tematiche per nulla
leggere, il suo messaggio è un monito contro il machismo, esagero?
Probabilmente sì, e poco mi importa: nell’azione del pescatore si
legge una tendenza ancestrale del maschio a voler ottenere il
femminino (in primis il corpo, certo, e più in profondità anche il
suo amore) a qualunque costo (per la Budanova anche al costo della
pelle), ed è inevitabile che un tale comportamento prevaricante e
coercitivo non può che creare lacerazioni e marcati disequilibri.
Nella vita al di qua dello schermo la tragedia è spesso il triste
epilogo, qui, invece, grazie alla curiosità della figlia, la catena
si spezza e in un discreto finale assaporiamo il ritorno
all’emancipazione di lei e la correlata disperazione di lui.
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