lunedì 8 aprile 2019

La moglie del poliziotto

La centralità tematica è data già dal titolo perché Die Frau des Polizisten (2013) attraverso una generalizzazione dei soggetti (“una moglie”, “un poliziotto”) mira all’eventualità del dovunque, siamo in Germania ma potremmo essere in Italia o in Francia, quello che a Philip Gröning interessa maggiormente è raccontare una storia che, come i casi di cronaca nera ci insegnano tristemente, può accadere in qualunque posto del mondo, per questo i suoi protagonisti sono tratteggiati dal regista in un modo piuttosto basico, nonostante il film duri quasi tre ore non c’è un approfondimento o uno sviluppo psicologico nei riguardi della famiglia, ciò che regna è una sorta di continua stasi che si avvicina per quello che può alla rappresentazione di una vita che si potrebbe definire “normale”. Non era semplice per Gröning riversare sullo schermo l’andamento intorpidito dell’esistenza che ogni giorno viviamo, ma credo ci sia riuscito ed il risultato finale è appagante proprio perché è in grado di restituire allo spettatore un ritratto di violenza domestica che si avvicina il più possibile ad un’idea di realtà. Dribblando la facile demagogia ed il pericoloso barbaradursismo, l’autore de Il grande silenzio (2005) fa sì che non vi siano stigmatizzazioni di sorta illustrando un quadro famigliare che, con uno stupore a cui comunque riusciamo a credere, alterna situazioni idilliache, ordinarie, quotidiane, a moti sotterranei che feriscono e che covano piccole esplosioni di violenza pronte ad eruttare.

Non ci sono sottotitoli nell’assistere ad un padre-cattivo e ad una mamma-vittima, lo scorrere delle cose che non scorre affatto ma che si costruisce tramite i tanti mattoncini di questo muro doloroso, è dotato di una naturalezza che rende traballante il concetto di finzione e che sa farci sedere a tavola con il trio in scena. Grazie ad un uso intelligente del digitale che sa esaltare l’estetica giungendo a prospettive iperealistiche come le immagini radenti all’epidermide angelica di Clara, Gröning modella il proprio racconto mescolando ingredienti visivi antitetici eppure complementari, grazie ad una persistente antiletteralità c’è un grosso scontro/incontro tra le riprese casalinghe e quelle naturalistiche come se le due visioni così lontane avessero comunque un loro motivo concomitante nell’area del sensibile, inoltre a scardinare la regolarità narrativa ci pensano soluzioni non troppo convenzionali (almeno per il cinema tradizionale) come la particolare attenzione verso gli animali (vivi, morti, immaginari) o come i brevi inserti dedicati ad un uomo anziano che ci appare molto solo di cui non sapremo niente durante la proiezione, tutti elementi che contribuiscono ad arricchire l’argomento principale tanto che in taluni frangenti La moglie del poliziotto, pur mantenendo sempre un costante filo di tensione al suo interno, sa anche essere, ad esempio, una delle istantanee più tenere e sincere in fatto di rapporto tra madre e figlia viste al cinema.

Con l’approssimarsi della fine il regista ha comunque ceduto ad un’esibizione della violenza che forse era più predicibile su un piano “classico”, chi scrive avrebbe evitato un tale show paterno perché comunque mostrare i lividi fa più male che mostrare le botte, ad ogni modo non è una caduta poiché negli ultimi capitoli sembra che anche dopo il fattaccio ogni cosa prosegua come prima (il bagno nella vasca), anche se l’ultimo sguardo interrogatorio della piccola, al pari di tutti gli sguardi dritti in camera, è scomodo e penetrante. Quanto malessere ci hai suggerito Gröning, quanta molteplice sofferenza.

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