sabato 31 marzo 2012

Tirador

Il sesto film di Brillante Mendoza (in soli due anni di attività!) sembra essere l’imbuto verso il quale far confluire la sua idea di cinema portata avanti fino a quel momento (è il 2007). I lavori del filippino nascono sotto il segno del realismo che viene colto attraverso un canale attinente al documentario, e in questo atto di catturare quel vissuto quotidiano radicato nella nazione di appartenenza, emerge una forte denuncia sottotestuale adibita a mostrare la condizione sociale a dir poco drammatica dei suoi compatrioti più poveri. I punti cardinali del cinema mendoziano sono questi, nel mezzo balenano incursioni etniche che immortalano riti religiosi (spesso processioni), e diffusi rimandi alle difficoltà che i filippini omosessuali incontrano nella società.

Sulla carta le tematiche si presentano così, nella pratica si è visto che le cose non sempre – quasi mai – hanno trovato una realizzazione convincente, e le cause, per chi scrive, non vanno rintracciate in un budget esiguo, perché ad esempio The Masseur (2005) pur avendo gli stessi fardelli produttivi che avranno i suoi successori è film degno di essere chiamato tale, piuttosto si palesa un prosciugamento del comparto sceneggiaturiale dove non solo Mendoza ha raccontato cose poco interessanti, ma lo ha fatto ahimè in maniera sghemba, raffazzonata e approssimativa.
Tirador, nel bene e nel male, presenta le qualità e i difetti sopraelencati. L’ambientazione principale, e il modo in cui ci viene proposta, ovvero solo camera a spalla che pedina gli abitanti del quartiere degradato, è praticamente la stessa della prima parte di Foster Child (2007). Al contempo ci sono dei forti richiami alla realtà politica con delle elezioni incombenti che riportano con la mente a Manoro (2006), inframmezzate da parentesi religiose che invece richiamano Kaleldo (2006).

Il potpourri autocitazionistico partorisce un film che rende con sufficiente efficacia il suo messaggio di fondo riguardante lo scollamento tra le istituzioni (la legge, la classe politica) e il popolo (come detto poverissimo), e difatti la pellicola è racchiusa in due estremi, forse gli unici realmente convincenti, che mostrano da una parte una polizia locale decisamente violenta nei confronti dei più deboli, e dall’altra dei politicanti che cercano di accaparrarsi un voto sputacchiando frasi fatte ad un comizio. Il guaio è che il disagio sociale di questa gente viene raccontato da Mendoza in modo veramente sfilacciato, cioè, la tendenza è proprio quella di procedere in avanti attraverso una narrazione episodica senza alcun costrutto. Se l’intento era quello di fare un film corale il risultato ottenuto è esattamente l’opposto; non c’è un’interazione che sia in grado di legittimare i personaggi nello stesso film, manca appeal ai personaggi stessi, non è pervenuto un solido intreccio tramico, ci sono solo segmenti indipendenti in cui accadono eventi che onestamente non intrigano perché non si ha il tempo di entrare in contatto con nessuna delle figure sullo schermo. Un paio di passaggi ravvivano l’attenzione (tipo il furto del portatile o lo smarrimento della dentiera), mentre tutti gli altri faticano terribilmente ad essere visti.

Se in soli due anni Mendoza ha girato 6 film è logico che in prima battuta sia stata la qualità a risentirne, probabilmente si è trattata di una fase di rodaggio e tutto quello che si può volere, ma la convinzione dopo aver visionato questa acerba fase artistica è che il buon cinema navighi al largo di tali coste.    

mercoledì 28 marzo 2012

Hors Satan

Adesso che Hors Satan (2011) è giunto fino ai nostri minuscoli ed inutili schermi, non possiamo che ringraziare Dumont per averci reso ancora una volta impreparati di fronte al suo cinema, un cinema dove la visione cede il passo all’esperienza sensoriale, metodo di trasmissione auspicato dall’ex professore di filosofia che in molte interviste ha dichiarato a più riprese di come i suoi lavori nascano dalle sensazioni, dall’invisibile, colmando perciò di impressioni la diga dell’ermeneutica a cui basta una goccia per esondare, e di gocce, in questo film presentato a Cannes, ce ne sono un’infinità, tante da travolgere e stordire sebbene la sottrazione sia l’imperativo categorico a cui attenersi, cosicché non sono soltanto le parole e le musiche ad essere rosicchiate fino all’osso, ma anche lo scenario paesaggistico che, come per Twentynine Palms (2003), recinta la storia in un baratro di asetticità totale; Passo di Calais diventa un limbo violentato dai contrasti della natura: le colline lunari che fanno il verso alle depressioni orografiche, il cielo color schifo specchio immobile di un mare in ebollizione.

Dumont arriva in questo scenario senza coordinate e, come per il film girato nel deserto californiano, edifica dal nulla il suo impianto che prescinde con una tranquillità disarmante di qualsiasi escamotage filmico: un uomo si inginocchia davanti al sole, una giovane piange vicino a casa. Punto. Non c’è psicologia o sociologia, la caratterizzazione è radicata nei plans straordinariamente combinati fra campi lunghissimi in cui gli attori diventano formiche, e primi piani che trivellano l’occhio, non c’è alcuna concessione, il francese sordo ad ogni tipo di semplificazione alterna la grandezza della vista d’insieme al dettaglio del particolare permettendosi soltanto delle dissolvenze in nero che scandiscono l’incedere della pellicola, dei veri e propri rintocchi di tenebra che con l’approssimarsi del finale si fanno sempre più presenti.
Hors Satan è, nella forma, l’ennesimo trattato di eversione da parte di Dumont che non ha il timore di appesantire né con la ripetizione (il girovagare per i brulli saliscendi) men che meno con la dilatazione (l’espansione dei tempi di ripresa), lui, abile architetto, compensa la contro-dinamicità con un procedere che ha la stessa consistenza aneddotica della Bibbia, la sua mdp è il verbo apostolico che racconta ciò che vede: un uomo, una donna, la natura, il mistero.

Se Hadewijch (2009) terminava in un abbraccio salvifico che aveva come protagonista proprio Dewaele, qui è nuovamente l’attore, pienamente dumontiano nei tratti somatici, che si frappone tra la vittima e il precipizio. Il suo aiuto muto (o quasi: “non resta che una cosa da fare”) si concretizza in azioni che, banalmente, spiazzano: l’uccisione a sangue freddo del patrigno [1] e la punizione nei confronti del guardiano, sono accadimenti che non sembrano estromettere troppo il male data la loro cifra brutale, ma l’aggressione comunque ovattata dall’imperturbabilità di questo Golem-pagano (cit. Alessandro Baratti, a sua volta cit. Alain Spira) si muove per traiettorie che (forse) hanno un residuo di sentimento (tu chiamala, se vuoi, umanità), oserei dire puro perché egli rifiuta la carnalità di chi sente davvero vicino (ricordate Pharaon?) ma viceversa non ci pensa due volte ad accoppiarsi selvaggiamente con una donnaccia che subito dopo, con la schiuma alla bocca, crolla in un delirio mistico. Il comportamento del le gars è oscillante: uccide un suo simile (?) ma ne salva un altro con una sorta di esorcismo, Dumont evita ogni indirizzamento: il ragazzo non è solo Dio non è solo il Diavolo, potrebbe essere entrambe le cose in parti uguali, oppure nessuna delle due, egli, semplicemente, È. Chi invece sembra non uscire dalla cerchia diabolica è l’uomo dell’orticello accanto, uno qualunque, perché come ne L’umanità (1999) non importa chi ha commesso il crimine, ma perché lo ha fatto.

Il cinema di Dumont è mosso in tutto e per tutto da una scia sismica che ha un fortissimo carattere religioso, giusto per dire: il titolo originale de L’età inquieta (1997) è La vie de Jésus (il cinguettare degli uccellini…), ma il punto di vista del francese ha dribblato i paletti dei dogmi, depauperato Cristo appaiandolo all’uomo (ancora Pharaon), si è aperto all’alterità di altre confessioni (Céline), ha santificato la forza originaria dell’erba, della terra (Barbe con le sue visioni); e proprio dalla primigenia essenza della natura Hors Satan amalgama le citate suggestioni (Lui che ha il potere di curare, predire, far risorgere; Lui che prega gli elementi naturali; Lui che volge il capo di Lei proprio verso la terra come se da lì giungesse il soffio vitale) e al contempo le supera, va oltre il pensabile, il comprensibile, al di là della logica, dell’irrazionale; esce letteralmente dalla religione, non c’entra la croce, non c’entra l’inferno, ciò che accade, oltre ad essere un miracolo su pellicola, è un miracolo terreno. [2]

Rendiamo grazie a Bruno Dumont per la luminosa incomprensibilità di Hors Satan, per la verginità di ogni singolo fotogramma, per come ci lascia impreparati di fronte al manifestarsi dell’Arte, per quel respiro che abbiamo tirato insieme a Lei come se dopo una dissolvenza un po’ più lunga, fosse stato nuovamente il primo.
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[1] Avevo già visto questa scena nel trailer e da subito ho avuto il sentore che qualcosa non andasse per il suo verso. Osservando bene si nota infatti che quando l’uomo spara al suo obiettivo, quest’ultimo ricevuto il colpo schizza all’indietro come se una forza invisibile lo attirasse a sé, o come se quella pallottola avesse una forza… soprannaturale. Vedere qui per credere.

[2] Se qualcuno volesse rimanere basito in misura eguale, allora non può esimersi dal visionare il finale di Silent Light (2007).

martedì 27 marzo 2012

Finnst


Che tradotto dall'islandese dovrebbe significare "sentire".
I Sigur Rós stanno tornando.

lunedì 26 marzo 2012

Silent Souls

Due uomini e un cadavere. Il loro viaggio, i loro ricordi. Sullo sfondo una Russia mutevole ma sempre desolante.

Aleksei Fedorchenko, regista con appena due lungometraggi alle spalle, dedica Ovsyanki (2010) alla memoria dei suoi genitori. Ciò non stupisce perché a parte l’ultima frase ripetuta due volte (“solo l’amore non ha fine”), è proprio la pellicola tutta che si caratterizza di un tono introspettivo in cui si amalgamano nostalgie passate a quelle presenti.
Il corollario visivo tipicamente russo viene riproposto con appropriatezza nei soliti stilemi, aria nebulosa, ghiacciata, sospesa, che forgia esseri umani di stessa caratura: imperturbabili colossi dalle guance rosse. Se la cornice è questa, Fedorchenko compie il passo successivo ritraendo le usanze dei Merya, antico popolo ugro-finnico dalle discusse origini, che nel corso degli anni non ha perso il proprio folclore. Accade, perciò, che Silent Souls peschi sovente nel registro documentaristico mostrando il rituale di una cerimonia funebre (simile ad una nuziale con quei spaghetti attaccati ai peli pubici della sposa) che ha come cimitero l’acqua, perché i cimiteri veri lì, quelli di lapidi e terra, sono tutti mezzi vuoti.

La stramba solennità della liturgia trova risvolti simpatici (il marito che rivela le abitudini sessuali della coppia) affiancati dai pensieri extradiegetici del protagonista che appesantiscono un poco la narrazione a causa di uno spiegazionismo non sempre necessario.
Opera festivaliera in tutto e per tutto, vederla non è tempo sprecato.

domenica 25 marzo 2012

Accontentarsi di poco

Dopo aver riabilitato stelle ormai ossidate del firmamento, dopo aver entusiasmato pubblico e critica col suo ultimo film, dopo aver presieduto la giuria del 68° Festival di Venezia, Darren Aronofsky continua a volare basso. Infatti il suo prossimo lavoro si intitolerà Noah.
Ovvero: la storia di Noè.
Una cosetta da poco, ne'?

Immagine tratta da una graphic novel in cui lo stesso Aronofsky ha messo lo zampino.

venerdì 23 marzo 2012

La mosquitera

Sulla carta il lavoro di Agustí Vila presentato al Torino Film Festival del 2010 dovrebbe esporre la sua trama attraverso un mood leggero, da commedia brillante, e in effetti la partenza segue questa pista perché sul piatto abbiamo una coppia in crisi, dove lei è Emma Suárez (la musa del primo Medem) mentre lui è Eduard Fernández (notato nel ruolo del maestro in Black Bread, 2010), che oltre a non trovare un punto di incontro nel loro rapporto, sono incapaci di rapportarsi con il figlio di 16-17 anni che preferisce gli animali (ne riempie la casa, 6 cani e un paio di gatti) agli uomini, anche se tale distinzione di specie ne La mosquitera appare quanto mai debole.Essì perché più la pellicola si inoltra nel suo nocciolo, più il candore apparente annerisce, si sporca, diventa luridume emotivo-esistenziale incorniciato nell’agiatezza, coperto da sottili maschere sociali, compresso fra le mura domestiche a cui basta una finestra aperta per avvicinarsi alla morte.
Ma la repressione di questo malessere trova valvole di sfogo le cui rotaie portano il vagone traballante della famiglia (?) in una galleria senza luce, e già lo si afferra con i disegni di Alícia giudicati troppo violenti dall’editore, e dalle avances del padre nei confronti della colf di casa.
In aggiunta si affiancano sullo sfondo vicende che conferiscono una vaga coralità al narrato, ma si sa che quando un regista opta per questa via di trasmissione, la molteplicità conduce all’unicità, e in un tale teatrino di pupazzi si delinea chiaramente il baratro in cui le persone stanno precipitando a rotta di collo, quello dell’inaffettività.

Non è soltanto la relazione marito-moglie ad essere in crisi, d’altronde il film inizia con Alícia e Miquel già consapevoli della propria rottura, bensì quella genitori-prole. L’afasia sentimentale sembra essere un problema ereditario perché anche i genitori di Miquel si confrontano col proprio figlio in modo disinteressato (la madre malata di Alzheimer) e scorbutico (il padre che pare voglia sostituire la voce della moglie ormai muta), tuttavia il focolaio disempatico è rinvenibile nelle vicende che hanno come protagonista Alícia, la quale non riuscendo a scalfire la bolla in cui si è rinchiuso Luis, in un mix di solitudine e depressione si fa penetrare da un adolescente invece di penetrare lei stessa nel mondo dell’adolescenza. La noncuranza verso gli altri (insinuarsi nel letto di Sergi quando a due passi da lì dorme il figlio) e verso se stessi (“sono la tua puttana”) risulta la sporgenza più evidente di un processo che comunque si è ormai sedimentato in profondità, e tutti gli altri tasselli esterni (le parentesi con la bimba bionda “educata” da una SS in gonnella o la storia parallela tra il padre e la colf) compongono uno scenario desolante, tristemente moderno, altamente avvilente. E ogni cosa confluisce con giustezza nel pranzo finale, per nulla conciliatorio, che ha la stessa portata di sintesi dell’attinente Nothing’s All Bad (2010), dove il nonno squaderna la verità: “io non conosco l’amore, non so nemmeno come le persone siano capaci di amare. Non mi piacciono le persone che amano.”

Vila come Solondz o Seidl? I paragoni si possono fare, perché no, La mosquitera ha i suoi nei (qualche eccesso gratuito c’è, al pari della derivazione tematica) che però dato il cono d’ombra illustrato si mimetizzano piuttosto bene nel denso e preoccupante buio umano.

martedì 20 marzo 2012

Agrarian Utopia

Curioso: di tutti film provenienti dalla Thailandia affrontati in questo spazio virtuale – non troppi, ma nemmeno troppo pochi – non ce n’è uno corrispondente all’idea che ormai si è sedimentata nella nostra mente europea. Né Ratanaruang e men che meno Weerasethakul ci hanno fornito un’immagine vacanziera della loro terra, quindi niente mare cristallino, niente turismo e niente puttane.
Anche questo documentario del 2009 evita le luci della ribalta per ficcarsi nell’entroterra thailandese, lontano dalle metropoli e vicino, proprio ad un passo, alle risaie che una comunità di persone coltivano con la dedizione che solo i contadini hanno.

Lo spaccato rurale esalta l’immagine.
Uruphong Raksasad (regista, sceneggiatore e montatore) diventa muto osservatore dei riti agricoli, ruba le paure, le emozioni, le speranze (utopistiche) degli uomini sullo schermo, contempla la natura e tutte le sue componenti: il sole, il vento, la pioggia, perfino il fango nella sequenza più riuscita di tutta l’opera. Il fascino è tanto, parificabile alla compassione che si prova avvertendo la condizione di estrema povertà in cui vive questa gente, soprattutto quando vengono ripresi i bambini che noncuranti del poco avere si divertono con nulla: lo stelo di una pianta, un tuffo in una pozza d’acqua sporca.
Il fascino estetico però non basta, soprattutto quando un film come questo imbocca la strada del sociale racchiudendo l’opera fra estremi che mostrano due differenti comizi politici. L’intento è chiaro: contrapporre l’inefficienza del sistema all’urgenza quotidiana dei protagonisti, i quali con i loro debiti verso le banche sentono una pesante spada di Damocle sulle proprie teste.
Nulla di sbagliato, senza dubbio, ma allo stesso tempo nulla di impensabile, tanto che non bisogna essere dei veggenti per immaginarsi quale sarà il finale.

domenica 18 marzo 2012

Plastic Bag

Ramin Bahrani, già regista del non riuscitissimo Goodbye Solo (2008), non poteva che affidare a Werner Herzog la voce narrante del suo incantevole cortometraggio. Questo perché la vita del grande autore tedesco è un’avventura piena di eventi incredibili degni dei film che fa, ma soprattutto perché da che mondo è mondo tutti i viaggiatori sono in cerca di qualcosa, ed ogni incontro, tappa o scontro durante il tragitto, non riesce mai a colmare quel desiderio, quel pensiero, quella malinconia che spinge sempre a continuare verso la speranza, verso ciò in cui si crede.

Bei discorsi, belli, probabilmente, perché trasognanti, ma belli davvero perché scaturiti da 18 lirici minuti in cui un sacchetto di plastica, giusto uno di quelli che danno al supermercato, viene ripreso nella sua odissea fatta di momenti felici (l’apoteosi carnale della caviglia gonfia) a cui si contrappongono per una completezza dannatamente umana momenti nostalgici, laddove la nostalgia diventa il lancinante dolore del ritorno. Ma il mondo è grande e va esplorato, vissuto, affrontato nelle paure più superficiali (i mostri: cani, uccelli, cavalli), apprezzato nell’imprevedibilità della crasi (la scena: il sacchetto che sfiora nel cielo azzurro un suo simile), e percorso, per giungere alla meta agognata, il traguardo della corsa: una laurea, un matrimonio, un figlio. Per il nostro fluttuante protagonista il Pacific Trash Vortex, paradiso in Terra dei rifiuti di plastica. Eppure non è la felicità. Il vuoto non si riempie, la memoria ancora lede.

Film sul viaggio inteso come percorso, opera che candidamente suggerisce i vuoti dell’esistenza, pellicola sull’intimo carburante della vita: il ricordo (my maker) che si trasforma in una forma di religiosità priva di dogmi ed inutili preghiere.

Una fede vacillante come tutte le confessioni:
La mia creatrice esiste davvero o sono io ad averla creata nella mia mente?

Ma comunque (amaramente) fiduciosa:
Spero di incontrarla di nuovo, e se così sarà le dirò una sola cosa: vorrei che tu mi avessi creato, così potrei morire.

E porre fine al viaggio.

venerdì 16 marzo 2012

Casa de Lava

Ho avuto questa idea - che è stata un’idea stupida – di fare il remake di un film chiamato I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur, che girò molti film qui come Cat People, Anne of the Indies, Way of A Gaucho, era un grande artigiano. Ho deciso di fare qualcosa che è rimasto nella mia memoria di quel film; un film che ha zombi, vulcani, fantasmi, donne pazze, cani, strane notti, molta confusione e mistero. Vedrete che non è del tutto uguale a I Walked with a Zombie; è qualcos’altro.

È qualcos’altro. Casa de Lava (1994) non possiede divergenza soltanto verso il film di questo Tourneur che francamente non so chi sia, ma essendo un’opera di Pedro Costa la distinzione nei confronti del “solito” cinema è immediata perché ancora una volta dobbiamo rapportarci con un lungometraggio dal fortissimo carattere autoriale, arricchito da uno stile che è sì minimale ma che al contempo viene esteso e impreziosito da tematiche ardenti (come il magma del vulcano Fogo) sotto l’immobilismo registico.
Vieppiù che preso singolarmente Down to Earth (titolo inglese) possiede elementi di differenziazione anche nei confronti delle due pellicole successive: Ossos (1997) e In Vanda’s Room (2000). Gli scarti, sebbene minimi, non sono da rintracciare tanto nel sottotesto perché ancora una volta il cinema del portoghese si concentra sui reietti e la loro vita durissima (qui sintetizzata nell’ellissi di un salto nel vuoto), quanto nell’atmosfera e in parte anche nell’intreccio tramico.

L’aria è inevitabilmente più solare (ma attenzione alle scene di buio!) perché il sole di Capo Verde dona un tocco esotico alla vicenda, questo non so se depotenzi troppo il fine drammaturgico, ma quel che si avverte è una sorta di allontanamento della morsa realistica in favore di slanci simil-magici con personaggi che sembrano usciti dalla penna di qualche romanziere latino.
In riferimento alla sceneggiatura è vero che Costa ama affidarsi al non detto e in linea di massima lo fa anche qua, tuttavia si sente una certa sofisticazione della tessitura che un po’ a sorpresa annovera una figura assolutamente positiva come Mariana, vero esempio di caritas, e dei rivoli sentimentali che proprio non ci aspettavamo (non solo tra l’infermiera e il figlio della creola, ma tra la creola stessa e Leão).

Tenuto conto di questi aspetti, da una parte la pellicola contiene tutta l’affascinante complessità tipica del portoghese, ma dall’altra presenta più d’uno sfilacciamento che la rende difettosa di compattezza se confrontata alle opere successive, va comunque detto che la materia cinema viene esposta come di consueto alla grande, e ciò allieta non poco.

mercoledì 14 marzo 2012

Gli amanti del Pont-Neuf

Cinque anni dopo Rosso sangue (1986) Carax ritorna prepotentemente sul grande schermo con Les amants du Pont-Neuf, opera che si prefigura già opulente nel budget, una roba stratosferica: IMDb parla di 28 milioni di dollari, e, ovviamente, anche nella sua compiutezza visti gli eccessi diegetici di questo regista francese.
Assoldata nuovamente la coppia Binoche-Lavant, entrambi perfettamente calati nei loro ruoli, il buon Leos decide di sfrondare tutte quelle ramificazioni che nel precedente film facevano allontanare il discorso dal suo nocciolo, quindi nessuna contaminazione di generi ma occhio di bue ben puntato sul senzatetto Alex e sulla misteriosa Michèle con problemi alla vista.
Questa restrizione argomentativa aumenta sensibilmente se si osserva il setting principale.
Un ponte è di per sé una porzione di spazio che collega, che riduce le distanze, parimenti è un mondo sospeso, senza fondamenta, e mai come in questo caso diventa a-luogo, posto-non-posto, con il Pont-Neuf in ristrutturazione anche la città, una Parigi immonda (“lasciamo che Parigi marcisca!” grida Michèle alla fine) ottimamente delineata nella sequenza d’apertura, resta fuori pur aleggiando con il suo corpo caotico.
Se il concentrato sentimentale diverge da Mauvais sang, su un aspetto invece le due pellicole convergono in maniera sovrapponibile: niente belle statuine, niente facilonerie da soap opera, qui si parla di amore sofferente e di sofferenze d’amore fra due reietti, due scarti della società, due macerie di se stessi.

Eppure, come sottolineato dalla recensione su Cinemasema (link), nell’osservare le disavventure dei protagonisti sullo schermo si percepisce una falsità di fondo, e tale percezione non va presa in maniera negativa, piuttosto come un chiaro intento di intensificare il falso; ciò porta in una direzione che oltre ad essere un senso unico è quasi un vicolo cieco: la mano di Carax si fa sentire e incide pesantemente nell’economia del film tanto da far partorire una domanda: si tratta di compiacimento o meno?
Certo, ci sono sequenze degne del veicolo artistico di cui fanno parte, difficile dimenticare le esplosioni dei fuochi d’artificio mentre i due si rincorrono sul ponte, e altrettanto non si può non ammirare l’inventiva di uno sci acquatico sulla Senna o della porticina del Louvre notturno che Tsai Ming-liang riproporrà nel suo Face (2009), per non dire poi di una miriade di trovate che confermano l’eccentrica visionarietà del regista, su tutte la riduzione fisica dei due innamorati in scala all’immondizia che li circonda (foto). Ma alla domanda di poco fa credo che sia inevitabile rispondere con un sì, o almeno con: un po’. Carax si specchia nel suo estetismo, è un fenomeno ma tende a sovrabbondare, e quando si mettono da parte tutti gli orpelli superflui, il testo che rimane è parecchio scarno, risibile, volatile.

Flop gigantesco ai botteghini se rapportato ai costi di produzione, Gli amanti del Pont-Neuf è manifesto corretto del cinema caraxiano: ricchezza anche quando si parla di povertà, fastosità anche se il set è uno spoglio ponte in rifacimento, sfoggio anche se i personaggi non hanno niente.
Ma se si parla di Amore che succede?

lunedì 12 marzo 2012

Foster Child

È difficile credere che la mano dietro a Foster Child (2007) sia la stessa del contemporaneo Pantasya. Quest’ultimo è un film che sembra un vademecum su come NON fare un film: insensato nella sua testardaggine pruriginosa, prosciugato emotivamente da una suddivisione in capitoletti scollegati gli uni dagli altri, ridicolizzato da interpretazioni attoriali sotto il limite della decenza, banalizzato da un digitale omologante.
Ci voleva davvero poco per far di meglio, e tale opera coetanea pur non entrando nell’ordine dell’indispensabilità, ha perlomeno quelle qualità di base che ogni spettatore si aspetta di vedere in una pellicola: c’è una storia, c’è la voglia di esporla, c’è un’idea di modo, ci sono interpreti che garantiscono un minimo di credibilità, c’è un bimbo delizioso con cui si empatizza immediatamente.

Lo spirito di fondo è all’incirca quello che avevamo potuto osservare in Manoro (2006), ossia l’intenzione di ritrarre le frange più povere delle Filippine tramite un canale quanto più vicino alla realtà. Diciamo che qui la componente documentaristica è relegata in un cantuccio per dare più spazio alla fiction, ma ad ogni modo il materiale trattato è parecchio aderente alla quotidianità della vita a Manila e perciò la sensazione che trasuda dall’opera è quella di una discreta commistione fra le due categorie. L’interesse verso la storia del piccolo John-John viene proprio sollecitato e solleticato da questa presa realistica che Mendoza cura – finalmente – con una certa professionalità. All’interno della baraccopoli il regista filippino ci va giù pesante con la macchina a mano diventando lo stalker dei suoi personaggi che pedina su e giù per le viuzze del termitaio tutto lamiere e ubriaconi. Al contempo appoggia il piede sul pedale dell’emotività intessendo le relazioni tra il pupo di casa e i vari componenti della famiglia, con punte di suggerita tenerezza quando il “fratellino” più grande si prende cura di lui.

Ma è con il costituirsi della parte lontana dal quartiere degradato che il film svela le sue intenzioni. Intenzioni concentrate sul sistema adottivo che vige in quella zona geografica. La prassi è particolare perché gli orfanelli prima di essere adottati da famiglie più abbienti vengono “parcheggiati” (anche per anni) fra le amorevoli braccia delle mamme locali. Così nella contrapposizione fra mancanza (una doccia fatta con la manichetta) e abbondanza (una doccia ultramoderna ma poco funzionale), ne esce fuori il profilo sincero di una donna profondamente umana, materialmente misera, spiritualmente ricchissima, una donna che ha amato John-John proprio come se fosse stato il suo vero figlio.

Foster Child è una tappa importante nella carriera di Brillante Mendoza, un vero e proprio punto di inizio che lo porterà da qui in avanti nei festival più rinomati del mondo.
E noi confermiamo, perché il film, soprattutto se rapportato ai suoi predecessori, ha più meriti che difetti, quindi mi permetto di affermare che se si vuole conoscere l’arte mendoziana conviene partire da The Masseur (2005) per poi passare direttamente a questo.

domenica 11 marzo 2012

7 registi a Cuba

Sembra una barzelletta: un francese, un portoricano (naturalizzato spagnolo), uno spagnolo purosangue, un argentino stabilitosi oltralpe, un israeliano, un cubano e un altro argentino, tutti insieme appassionatamente a L’Avana.
Per fare che? Ma per girare un film, ovviamente! Il titolo è 7 días en La Habana, e si tratta di un'opera collettiva che, come è facile intuire, offre 7 ritratti della capitale di Cuba corrispondenti ai giorni della settimana.
I nomi coinvolti sono parecchio eterogenei, alcuni mezzi sconosciuti, altri più affermati; c’è Benicio Del Toro per la prima volta al di qua della mdp, il Laurent Cantet de La classe, il palindromo Medem (foto) e soprattutto il sempre caro Noé.

Qui il sito e qui un’intervista a Gaspar.

sabato 10 marzo 2012

The Castle of Purity

Un padre segrega in casa la propria moglie e i suoi tre figli.

Se dalla breve sinossi de El castillo de la pureza (1973) vi è venuta in mente un’opera significativamente attuale come Dogtooth (2009), beh, siete sulla strada giusta. Anche se non ho trovato conferme ufficiali, vari rumors sul web sostengono che Lanthimos si sia davvero ispirato a questo film messicano diretto dal prolifico Arturo Ripstein.
In effetti l’idea di base, un padre che rigetta il mondo esterno e recinta la vita dei suoi famigliari nell’ambiente casalingo, ricorda la produzione greca, ma direi che le assonanze non vanno oltre questo aspetto.
Qui siamo di fronte ad una relazione patriarcale a cui è assoggettata anche la moglie, lasciando perciò il solo padre alle prese con le sue fobie. Lungi da me voler confrontare due pellicole così lontane temporalmente, ma è opinione di chi scrive che questo film difetti nel coinvolgimento poiché delinea in modo netto le vittime, le quali, aspetto importantissimo, capiscono di essere tali. Se in Kynodontas l’educazione deformante aveva fatto sì che i figli divenissero inconsapevoli della loro condizione, i ragazzi di Ripstein cercano invece di reagire fin da subito, vogliono vedere cosa c’è al di là del portone, tentano di soverchiare l’autorità del padre, ed è emblematico che l’episodio incestuoso tra i due fratelli sia il risultato di una “rivolta” e non di un obbligo imposto dall’alto.

L’attore Claudio Brook non riesce a dare quella cattiveria giusta che occorrerebbe al suo ruolo, piuttosto è il regista a suggerircene il credo con la fabbricazione del veleno per topi, poi rivenduto all’esterno, che è figlia dell’opinione propria del mondo: uomini = ratti, e la sua casa che tenta di celare da ciò che è altro si rivela rapidamente un traballante castello di carte. Direi che il nocciolo della questione è racchiuso in questo concetto, ossia che la ricerca del candore e della purezza non può avvenire tramite divieti e prepotenze. Precipitato un po’ prevedibile a cui si affianca un gratuito accanimento maschilista fatto di tradimenti e accuse ingiuste ai danni dell’incolpevole moglie.

Ripstein, comunque, cerca svincoli d’autore con quella pioggia incessante e imperturbabile che precipita continuamente sul set e che non riesce a ripulire tutta la malvagità, anzi, alla fine, nella discreta conclusione giocata sul filo dell’equivoco, è la disperazione verso il genitore arrestato il sentimento più diffuso da parte della prole.

Al tempo, forse, un buon film, oggidì accusa i quasi quarant’anni sul groppone.

giovedì 8 marzo 2012

Children…

Brutto, bruttissimo segno quando il taccuino invisibile o visibile che accompagna, o almeno dovrebbe farlo, qualunque intrepido barra pseudo-wannabe critico cinematografico (here i am) durante la visione di un film resta vuoto. Il che non è per niente collegato all’equazione pochi appunti = prodotto scadente, assolutamente no perché di appunti sottolineati in rosso per un prodotto scadente ce ne sarebbero a iosa. Lo spazio bianco è allora sintomatico di una pellicola come quella di Lee Kyoo-man che non ha bisogno di esegesi, di sviscerazioni o faticosi sforzi interpretativi, A-i-deul... (2011) è una visione autoconclusiva che non necessita di appendici cogitate e riversate in parole; se tutti i film fossero così, i critici (quelli veri, ma anche quelli che lo fanno tanto per) non avrebbero lavoro (o non avrebbero un blog), questo perché Children… si palesa nella sua unità senza altarini da scoprire, senza alcunché da denunciare, senza matrici sociali rilevanti da rilevare. Troppo pericolosamente americano per essere sudcoreano.

L’esoscheletro da thriller che ricorda – purtroppo solo sulla carta – Memorie di un assassino (2003) è preso da un fatto di cronaca vera che riguarda 5 bambini scomparsi su un monte, ma se l’ipotesi di fondere due registri così lontani come la commedia e le procedure investigative non viene presa in considerazione, Lee opta per una regia routinaria senza piglio distinguibile, che se unita alla sceneggiatura sull’orlo del precipizio costringe lo spettatore a prendere le distanze da questo film.
Anzi, direi che proprio in fase di scrittura si toccano punti bassini per almeno tre motivi:

1) Tutta la prima parte con il professore universitario, nel bilancio finale risulta ininfluente, ok insinuare il possibile coinvolgimento di un padre delle vittime, e ok mostrare il brancolamento nel buio da parte delle autorità, ma a che pro? Sicuramente non del regista che dando priorità al crimine commesso non fornisce la mappa del tesoro preferendo invischiarsi in sospetti superflui.

2) Non è funzionale, poi, il lasso di tempo che intercorre tra un’indagine e l’altra. Non essendoci particolari indiziati la sensazione è che la ricerca arrivata ad un punto morto non abbia la forza per gettarsi in un twist conclusivo degno di questo nome, cosa che puntualmente accade e che mina le basi della valutazione: se un thriller non sorprende, non gabba, non gioca con lo spettatore, che gusto c’è nel vederlo?

3) Sul fatto che sia il capo poliziotto a confessare l’esistenza di un sospettato al produttore televisivo e che quest’ultimo riesca a smascherarlo (un tipo qualunque, non la polizia che lo aveva lì a portata di mano!) è meglio soprassedere, piuttosto pare a chi scrive un gesto scellerato quello di introdurre il villain al centesimo minuto dall’inizio e a trenta della fine. È un escamotage per uscire dalla stasi in cui si era incagliata l’opera, ma è anche un tiro scorretto che ferisce una narrazione tranquillamente annullabile da lì indietro. E no, il discorso della telefonata ripreso nel finale è troppo debole per incollare il puzzle.

Per la serie: anche in Corea del Sud ogni tanto un buco nell’acqua lo fanno.

martedì 6 marzo 2012

L'ultimo posto sulla Terra

PREFAZIONE (sull’essere martiri)

Mesto na zemle (2001) è un film che proviene da un altro mondo.
Introdurre un’opera del genere in maniera distaccata, senza lasciarsi prendere da celebrazioni figlie dell’emotività, è cosa difficile, perciò di fronte ad un esemplare di cinema così scomodo, così moribondo, così devastante, lascio la parola all’eloquenza dei fatti, e i fatti dicono che Artour Aristakisian, regista che annovera nel suo curriculum “solo” due opere, questa e Le palme delle mani (1994), per girare L’ultimo posto sulla Terra non solo ha messo in gioco la carriera, ma è andato oltre, perché istituendo lui stesso questa comunità di reietti nel ventre di Mosca e sovvenzionandola con i suoi denari, ha finito per diventare anch’egli un senzatetto, una lattina schiacciata tra la sporcizia urbana, un mendicante deforme all’angolo della strada. Sebbene non vi siano conferme dirette (a questo link possiamo vederlo perlomeno vivo vicino a Ghezzi), le voci consultabili su Internet dicono così, e l’idea aggrada molto perché al di là del possibile dispiacere per l’uomo-Artour, emerge sotto i nostri occhi il profilo di un martire moderno, di un’artista che ha sacrificato tutti i suoi averi, tutte le sue energie, in nome del cinema.RIVOLUZIONE! (sull’essere amati)

Mosca, anzi no, la Città è un corpo umano di cemento dove il cervello (ecco il Cremlino, laggiù sullo sfondo) incombe sugli altri organi; le strade sono arterie percorse da automobiline e persone in giacca e cravatta; il cuore non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Ma poco sotto, tra le tubature delle fogne, gli escrementi espulsi da questo fantoccio di smog e grigiore si aggregano, si passano calore, si donano l’un l’altro seguendo i dogmi di un Messia talmente terreno da far rabbrividire, un uomo che non è figlio di nessuno, che è disposto a immolarsi per il gruppo (il topo morto azzannato), e a immolare se stesso (l’auto-evirazione) per depauperare quei sentimenti che lo distraggono dal progetto, l’amore con la a minuscola non trova posto in una cloaca del genere. Quello maiuscolo è invece il collante che avvicina ogni esponente della comunità, non si ama per attrazione, ma si ama perché si deve, perché anche gli ultimi possono trovare una mano aperta ad incontrare la loro guancia, e non importa niente della razza, della provenienza (un cinese ermafrodito come simbolo di alterità) o del lerciume che inzacchera la pelle, davanti a sé hanno un essere umano, e ciò è più che sufficiente. L’Amore come arma rivoluzionaria: mentre fuori da quelle quattro mura intossicate da miasmi pestilenziali gli omuncoli da ufficio conducono la propria ordinaria esistenza, lì dentro tambureggia un micro-cataclisma sociale, uno sguardo di indifferenza verso l’esterno come se ottobre fosse diventato un mese lungo anni, una rivoluzione muta, disinteressata al potere, calibrata all’alienazione sentimentale, al tapparsi le orecchie e al chiudere gli occhi per sentirsi in paradiso.
Il cuore di Mosca della Civiltà si ritrova ad essere un pugnetto di ventricoli tutto atrofizzato e ammuffito, ma, in un modo o nell’altro, ancora vivo.TUMULAZIONE (sull’essere morti)

Fin da subito si è però pervasi dalla sensazione che l’esperimento di Aristakisian abbia un che di anacronistico. Una comunità hippie alle soglie del nuovo millennio non può funzionare, sul serio, agli occhi dei cittadini la loro condotta stinge di trasgressione: non è più controcultura ma allontanamento dalla realtà, arginamento della propria condizione di disadattati, elegia delle macerie di se stessi, rotolamento nel porcile esistenziale, letamaio calcificato nella melma, discarica per immondizia non riciclabile: non c’è alcuna possibilità di futuro, ed è facile intuirlo perché in un luogo dove gli adulti suggono il latte dalle coetanee e i neonati muoiono schiacciati da un gesto distratto, le parole di un Messia diventano le farneticazioni di un tipo qualunque che, forse, ha messo in piedi questo circo di freaks per mascherare il suo malessere affettivo.
E poi c’è Maria. La storpia, colei che è sintesi (“cercavo un posto dove potermi sentire accettata”) e al contempo distacco (non viene detto a chiare lettere, ma è probabile che il raid nasca da una sua “soffiata”), l’unica di cui sapremo il nome, la pellegrina con un’espressione quanto mai tangente all’idea di sofferenza. È lei che una volta giunta nella congrega diventa testimone degli eventi e del progressivo quanto inarrestabile deteriorarsi di una realtà deteriorata in partenza, e nell’istante dopo la tempesta (una madre disposta ad uccidere la figlia pur di non consegnarla alle autorità) la vediamo sbucare da una voragine nella strada, il viso martoriato, trasfigurato, inenarrabile, le gambe che non la reggono; striscia come un verme lungo le scale mentre le persone passano accanto a lei indifferenti. Poi si alza, vacilla, le bende luride, le scarpe straziate. La fine.
POSTFAZIONE (sull’essenza)

Mesto na zemle è un film che proviene da un altro mondo perché va oltre le coordinate che solitamente guidano l’occhio, la mente e le emozioni di uno spettatore. È una pellicola ammutolente che rende futile ogni protesi interpretativa (compresa questa), e apre porte su quell’infinità nella quale è collocata la banale finità dell’Uomo. Capire che cosa è è troppo, comprendere cosa non è è il massimo che si possa fare, e quindi: non è un film accuratamente geografico: certo c’è la Russia che fa da sfondo, ma come spesso accade in opere così fatte gli interessi sociologici vengono pian piano soppiantati da quelli ontologici (per non dire cosmologici) e così una catapecchia piena di barboni può tradurre la totalità del Mondo; e non è nemmeno geometrico: la forma è deformata, anticipa, espone, ripropone, si interessa a diramazioni ulteriori come il segmento sconvolgente del cinese e la stracciona che rappresenta, lo dico senza la minima esitazione, il momento di cinema più disperato che abbia mai visto; e infine non è catalogabile temporalmente: perché il bianco e nero e le facce degli attori lo rendono un lungometraggio a prescindere dall’oggi, un film di fuliggine che ritrae un Medioevo moderno, un’epoca talmente buia dove nemmeno l’amore potrà salvarci.

domenica 4 marzo 2012

Toto le héros - Un eroe di fine millennio

Nel 1991 Jaco Van Dormael interra quei semi che germoglieranno nell’immaginifico labirinto di Mr. Nobody, film che alla seconda visione ne obbliga il recupero senza se e senza ma.
Toto le héros, tra l’altro un esordio, tra l’altro notevolissimo, annovera infatti una consistente quantità di similitudini con la pellicola del 2009. Questo aspetto è già un sintomo della precipua autorialità del belga: non una ripetizione di stile e contenuti, ma nell’ottica artistica, decisamente più interessante ai fini del giudizio, un discorso che acquista fluidità e crescita attraverso filigrane auree che collegano due film distanti venti anni e che a loro volta si evolvono in un dedalo straripante di cose, tutte straordinariamente belle.

E bello lo è davvero rivedere in questo film le medesime rotte del Signor Nessuno: anche qui abbiamo un impianto fondato sul ricordo, e anche qui la memoria che se ne va all’indietro è quella di un uomo giunto alla fine del suo percorso, un vecchio, il cui sforzo di analessi si addentra fino al principio, all’origine di tutto: la nascita, e dall’inizio, grazie al cinema, inizia a ri-vivere.
Ma come era lecito attendersi lo sciame narrativo non è per nulla compatto né direzionato, anzi ama infrattarsi negli intercapedini del passato sbalzando da un’epoca all’altra, mostrando il presente, il passato prossimo e quello remoto a cui corrispondono le relative stagioni esistenziali di Thomas.
Eppure, nonostante le tematiche siano vicine all’esondazione e aumentino inevitabilmente i processi cognitivi dello spettatore, c’è una Stella Polare che orienta il cammino sia del protagonista che del film tout court, e questa coordinata basilare non è altro che l’amore.
Di nuovo, il legame sentimentale che in apparenza si recide più e più volte, ma che nella pratica si fortifica col passare del tempo, unisce due fratelli che fratelli non sono. Gli odori incestuosi, ammesso che qualcuno possa avvertirli, sono totalmente assorbiti dalla consapevolezza di Van Dormael che scandagliando i viottoli dell’innocenza cava fuori una tenerezza capace di ripercuotersi anche quando Thomas diverrà adulto, invecchiato ma sempre innamorato.

All’eros e agli svariati accadimenti all’interno del film, si aggancia quello che con ogni probabilità è l’argomento principe di tutta l’opera: l’identità. Thomas come Nemo è uno e tanti, l’azione simmetrica interseca e sovrappone le vite di due bambini/uomini che nonostante le sottolineate divergenze aderiscono l’una sull’altra con sorprendente puntualità. Ma la lettura non è così immediata perché Van Dormael permette al suo personaggio di immaginarsi un’esistenza ulteriore che se ne sta un po’ di là (nello scenario hard-boiled) e un po’ di qua (lo sfondamento della barriera tra sogno e realtà verso la conclusione). Il mix temporale unito alla riplasmante personalità di Thomas donano al film la possibilità di un percorrimento continuo, visivo e concettuale, che non conosce esaurimento.
E, giusto per far evadere qualche suggestione personale, ho ri-visto in Toto alcuni lampi di Nobody: la voce infantile che narra, un cadavere sul tavolo autoptico, un’apnea nella vasca da bagno, treni che sfrecciano, ceneri sparse, una risatina beffarda, e chissà quant’altre epifanie non registrate data la natura dirompente del film.

Ma strutturare una recensione elencando soltanto somiglianze vere o presunte fra due lungometraggi non rende i meriti di una pellicola che, come nel nostro caso, è cresciuta alla grande (forse ringiovanendo?) senza mostrare il benché minimo cedimento, e tale freschezza intonsa si deve ad una vitalità globale (vale davvero per tutto: dalla sceneggiatura alla regia passando per gli attori) che in qualche modo conforta per l’incredibile potenza che il Cinema possiede quando esce allo scoperto, e non sono soltanto accenti deliziosi come la scena del camion o il finale attiguo alla commozione a placare la brama cinefila, c’è dell’altro, qualcosa che si infiltra sottopelle e una volta giunti ai titoli di coda ti lascia lì, imbambolato davanti allo schermo, con gli occhi sgranati e il cuore che, serenamente, riprende a battere.

venerdì 2 marzo 2012

Bunker Palace Hôtel

Un cielo così cupo come quello dei crediti iniziali, direbbe qualcuno, non può schiarire senza una tempesta. Per di più a questi nuvoloni grigi si aggiungono rimbombi di spari, lontani non troppo, vicini più che mai. Parafrasare Shakespeare in rapporto ad un autore di nome Enki Bilal, che bazzica un campo poco conosciuto da questo blog, è un azzardo bello e proprio perché il regista in questione, essenzialmente un fumettista prestatosi di tanto in tanto alla settima arte, è, almeno in Italia, un perfetto signor nessuno, e al di là delle sue produzioni grafiche in cui non metto becco vista la mia aderente ignoranza, per il singolo giudizio di Bunker Palace Hôtel (1989) resta la convinzione che aver scomodato Sir William sia decisamente troppo.

Poiché il film è ambientato in un ipotetico futuro bagnato da piogge acide in cui i potenti del circondario si sono riuniti in un resort sotterraneo a prova di intruso (ma non troppo), il sesto senso di chi scrive aveva iniziato a dare segni di interesse dato il pressoché feticismo verso quelle ambientazioni post-qualunquecosa dove la razza umana scende al grado zero, e tutto diventa specchio futuribile della nostra società.
Mai fidarsi troppo del sesto senso però. È vero che la pellicola presa in esame ha richiami alla categoria sopraccitata, ma è ancora più vero che il grosso della storia, a parte l’incipit e l’excipit, è tutto concentrato all’interno dello strambo hotel, e quindi di visioni/situazioni annichilenti non vi è traccia.

Ovviamente, potrete obiettare, si vuole denunciare comunque una certa deriva umana che non sarà lesiva come quella di un post-nuke ma che comunque squaderna, o almeno tenta di farlo, una delle piaghe più putrescenti della nostra epoca, dicasi il potere. Ed è vero, si tratta quindi di un film che attraverso la sua intransigente asetticità (né il dove né il quando vengono detti) ci parla di politica(/i), di leader, di giochetti meschini, di nuovi corsi presumibilmente uguali ai precedenti. Bersaglio all’incirca colpito – c’è una certa attualità, non trovate? – ma certamente non cinematograficamente scolpito a causa della sua realizzazione che si contrassegna di due colpevoli squilibri.
Del tipo: se è vero che fuori le cose vanno così male, nelle riprese esterne non viene trasmesso un quid di dolore parificabile all’agiatezza della mansione segreta. Perciò la presenza di quegli uomini appare slegata a ciò che accade in superficie, e visto il grigiore della loro esistenza, anche la fruizione della vicenda si adegua a tale tono. Inoltre la “maschera cattiva” (Trintignant) supera per carisma e presenza scenica quella buona (Bouquet), la quale è anche oggetto di rapporti non limpidi con uno dei potenti e di un’entrata nel bunker che convince pochissimo, il che finisce per creare disinteresse verso l’eroina e le motivazioni per cui si è infiltrata là dentro.

Finale decisamente allegorico finanche surreale (quella specie di gigantesca trivella) che vuole cercare di chiudere il cerchio dopo aver tracciato sconclusionatamente più righe, sicché l’apparizione dell’attesissimo presidente non stupisce più di tanto, anche se almeno si riesce ad osservare un minimo di precipitato: la tempesta non è servita a molto, il cielo sarà sempre cupo.
E che Shakespeare mi perdoni.

giovedì 1 marzo 2012

son-dance

Il Festival di cinema indipendente per eccellenza partorisce un ennesimo e interessante pargoletto di nome Beasts of the Southern Wild. Racconta di una bambina che se ne va a zonzo per una terra abitata da creature preistoriche in cerca della madre perduta.
Detta così potrebbe sembrare una robetta fantasiosa, ma la pellicola è stata premiata dalla giuria per il miglior film drammatico in competizione.