sabato 31 ottobre 2009

Trick 'r Treat

La Warner Bros. ha fatto un gran casino con questo film. Le riprese si sono concluse nel 2007 (come dimostra la tagline di questa locandina) ma per motivi oscuri Trick ‘r Treat non è praticamente mai passato nelle sale pur avendo vinto alcuni premi festivalari, e solo dopo due anni ha visto la luce sugli scaffali americani direttamente in dvd. La Warner non andrà di certo in fallimento per aver perso i ricavi al botteghino, ma chi davvero ci ha perso sono stati gli spettatori che nella notte delle streghe avrebbero avuto l’opportunità di vedere un buon horror piuttosto che l’ennesimo, quanto inatteso, episodio di Saw.

Dietro la mdp si posiziona un giovane regista dell’Ohio, Michael Dougherty, qui al suo debutto assoluto come direttore d’orchestra. Ma Dougherty non è uno sprovveduto perché ha scritto le sceneggiature di due superhero film come X-Men 2 (2003) e Superman Returns (2006) entrambi diretti da Bryan Singer che qui si segnala nelle vesti di produttore.
Quello che accade in Trick ‘r Treat non farà sobbalzare dalla sedia: né per la paura né per l’originalità; eppure a dispetto di un’atmosfera “leggera”, quasi da commedia nera, alcuni mostri/vampiri/quelchevolete sono messi al punto giusto per spaventarvi sottilmente. Ed anche la struttura narrativa, non troppo inedita, riesce a discostarsi notevolmente da quello che il buon Sciallis (recensione) definisce una “decameronata ziotibiesca” in quanto le varie storie narrate hanno il pregio di intersecarsi tarantiniamente. Anche se, come sottolinea sempre Sciallis, è doveroso ammettere una certa fragilità nel narrare le vicende di Anna Paquin (compensate però da una consistente dose di tette!) versione Cappuccetto Rosso che si scopre lupo, in cui ho scorto un messaggio subliminale eroticamente allusivo neanche tanto sub che mi ha ricordato In compagnia dei lupi (1984), ma magari me lo sono sognato, anche perché questo non è film dai grandi intenti sottotestuali: ciò che deve fare, intrattenere, lo fa, e lo fa bene. Infatti le storie che vedono protagonisti Dylan Baker (grand’uomo, lo apprezzo dai tempi di Happiness, 1998) e il gruppetto di bambini dispettosi sono squisiti sia dal punto di vista del ritmo che da quello dei tempi comici: mai troppo invadenti, facendo sì che la pellicola non diventi un dozzinale teen horror.
Discorso a parte per la splendida fotografia di Glen MacPherson che immortala alla grande quello che nell’immaginario collettivo è Halloween in una cittadina americana, ovvero: foglie secche trascinate dal vento su viali deserti percorsi da bambini come spiriti inquieti. E questo c’è, insieme a molto altro, vedere la palude nebbiosa da cui affiora il bus per credere.

Vale eccome una visione. Ha il pregio di essere tradizionalmente originale, mica poco eh.

giovedì 29 ottobre 2009

Il centipede umano

Carino, vero?

The Human Centipede di Tom Six.
Chissà se mai lo vedremo in Italia... forse meglio di no.

mercoledì 28 ottobre 2009

Hukkle

Siccome di questo film non ci ho capito praticamente nulla, tradurrò spudoratamente la trama di IMDB scritta da qualche prode ardimentoso che si è cimentato nella visione di Hukkle: eliminando (quasi) del tutto i dialoghi, il film segue da vicino gli abitanti, e gli animali, di una piccola comunità ungherese: un vecchio uomo col singhiozzo, una pastorella con le sue pecore, un’anziana donna dai comportamenti ambigui, alcune cantanti ad un matrimonio. Mentre la maggior parte del film è costituita da un susseguirsi di scenette, nella sottotrama permane un sinistro ed appena percettibile odore di morte.

Bene. Cioè, male. Perché di altro non avrei molto da dire. La sinossi qui sopra è molto semplificata, in realtà il numero di personaggi seguiti (nel vero senso della parola, la mdp li riprende da vicinissimo) è maggiore, e non c’è un filo logico che lega il loro esserci filmico, e se c’è io non l’ho colto. A complicare le cose ci si mette l’assoluta mancanza di dialoghi che rende l’interpretazione della pellicola ancora più soggettiva. In un film come Hukkle – a proposito, il titolo significa letteralmente “singhiozzo”, ciò mi fa pensare che il vecchio abbia un ruolo di rilievo nella storia, ma vai a capire quale! – ognuno può vederci quel che vuole. Io ho intuito una visione bergsoniana del tempo, ma lasciando da parte chiavi di lettura metafisiche si può vedere il tutto come un “semplice” dramma dove delle persone muoiono perché avvelenate… o almeno così sembra.

Il regista ungherese György Pálfi, qui al suo primo lungometraggio (2002), è ben considerato dalla critica che lo definisce qua e là talentuoso ed imprevedibile. In effetti la sua regia è piuttosto curiosa poiché unisce sequenze accelerate in stile stop-motion a primi piani stranianti modello Lynch.
Visivamente Hukkle è una pellicola molto più curata di quanto possa sembrare, basta prendere le sequenze degli animali sotto terra o l’improvvisa apparizione di un caccia a folle velocità realizzata in computer grafica.

Se qualcuno passando di qui avesse la pazienza di spiegarmi il significato di questo film io ne sarei davvero felice. Nel frattempo pubblico il testo in inglese della splendida canzone finale che forse spiega il non-senso di tutto. E se pensate che lo faccia per rendere questo post meno scarno… beh, state pensando proprio bene.

If your husband has you seething
Belladonna you must feed him
Add some pepper, make it pleasing
He’ll be laid out by the evening
If you love your husband dearly
Good meals will keep him cheery

I’ll away to that far valley
I’ll away to that far valley
Where even birds go very rarely
Where even birds go very rarely
As the stork I too am lonely
As the stork I too am lonely
I have no one to console me
I have no one to console me
Days of sadness, life of sorrow
Days of sadness, life of sorrow
Star of sadness scars the morrow
Star of sadness scars the morrow

domenica 25 ottobre 2009

Of Freaks and Men

In una Russia agli inizi del ‘900 si snodano le vite di persone diverse: Viktor Ivanovich è un produttore pornografico in erba che smercia foto osé all’adolescente Leeza, figlia dell’anziano ingegnere Radlov preso in cura dal dottor Stasov il quale ha due gemelli siamesi adottati. La “mostruosità” dei due ragazzini attira l’attenzione di Viktor Ivanovich che rapisce i gemelli e li porta in casa di Radlov morto per malattia. Qui, insieme allo psicopatico mammone Johann, mette su una cooperativa del porno costringendo Leeza e i gemelli a posare nudi di fronte all’obiettivo di Putilov che è testimone affascinato dello storico passaggio dalla fotografia alla pellicola.
Ooooh, molto ma molto interessante questo film di Aleksej Balabanov (la sua filmografia è parecchio stuzzicante, ci butterò più di un occhio) girato in un bianco e nero virato seppia che ci catapulta dritti dritti nell’eleganza rigorosa della San Pietroburgo di quell’epoca.
Il titolo inglese riporta con forza a Of Mice and Men (1937) di Steinbeck, ma la fonte a cui inevitabilmente attinge è il film più irripetibile di tutta la storia del cinema: Freaks (1932) di Tod Browning.
Su un impianto drammaticamente bizzarro si ripropone qui la questione sul chi siano i veri mostri. Ponendo un parallelo fra i due film si ha così: Johann e Viktor Ivanovich come Cleopatra, e i gemelli siamesi come i freaks del circo. La tesi di Balabanov combacia con quella di Browning: gli uomini “normali” sono i mostri-dentro che speculano sui mostri-fuori per arricchirsi.
Nella pellicola di Browning i reietti diventano in qualche modo gli eroi prendendosi una rivincita su Cleopatra ed Hercules. In Of Freaks and Men la morale è molto meno consolatoria. Fra morti ammazzati, un gemello ubriaco fradicio che muore inciampando nel bagno, ed una Leeza ormai ammorbata dalla perversione, l’unico ad aver trovato giovamento dalla storia è il giovane Putilov che abbandonata la fotografia diventa un regista-pioniere adorato da orde di fanciulle.
Ho trovato azzeccata l’idea del regista di ripercorrere i primi passi del cinema nel territorio russo attraverso uno sguardo underground come quello dell’erotismo. La nascita di un movimento artistico come quello cinematografico che ha cambiato letteralmente il modo di Raccontare - Márquez sosteneva che il cinema fosse il mezzo di espressione perfetto grazie al suo tremendo potere visivo, poi scrisse Cent’anni di solitudine (1967)… - è passato anche in questo sottobosco eticamente poco raccomandabile, e dunque bisogna dare atto a Balabanov per avercelo svelato.

Il modo con cui il regista porta avanti il film scorre sul filo del grottesco con quei personaggi iper-caricati fino a diventare caricature. Come poter dimenticare il sorriso beffardo di Viktor Ivanovich, o lo sguardo vuoto di Johann, interpretati rispettivamente dagli ottimi Viktor Sukhorukov e Sergei Makovetsky che bucano letteralmente lo schermo.
Gradito anche l’uso di didascalie nel classico stile del muto che danno un tocco antiquato all’opera, se mai ce ne fosse stato bisogno.
Insomma, consigliato assolutamente ai cinefili navigati, agli altri dico che potrebbe essere l’occasione giusta per intraprendere nuove strade.

mercoledì 21 ottobre 2009

L'alba della libertà

Dieter Dengler è stato un aviatore americano che durante la guerra del Vietnam salì alla ribalta della cronaca perché riuscì a fuggire da un campo di prigionia laotiano in cui venne deportato dopo essere precipitato col suo aereo. E divenne famoso anche perché riuscì a sopravvivere ben ventitre giorni nella giungla selvaggia, scalzo.
Un tizio con tali peculiarità non poteva non interessare ad Herzog che con questo tipo di storie ci va a nozze. E infatti nel ’97 diresse Il piccolo Dieter vuole volare, documentario ibrido (quindi alla Herzog) in cui lo stesso Dengler recitò nel ruolo di se stesso. La scelta di raccontare la storia del pilota sottoforma di documentario permise ad Herzog un risparmio notevole sul bilancio, ma il pallino di fare un film di fiction su Dengler non lo abbandonò negli anni successivi fino a quando si presentò l’occasione giusta sottoforma di Christian Bale, il quale s’interessò al progetto rendendo così possibile il coinvolgimento della storica casa di produzione hollywoodiana Metro Goldwyn Mayer.

Il risultato è L’alba della libertà, un film che, dispiace dirlo, è, insieme a Grido di pietra (1991), il più impersonale del regista bavarese. È difficile pensare che appena un anno prima Herzog girò L’ignoto spazio profondo (2005), film discutibile sotto diversi punti di vista, ma con una dote mica facile da rintracciare: l’autenticità. Quella che manca a questo film. L’alba della libertà ha il terribile sapore del già visto, e non parlo soltanto della storia raccontata, perché ormai dal Vietnam, cinematograficamente parlando, è difficile cavare dal buco qualcosa di "nuovo", ma di come viene narrata. Da Herzog è obbligatorio aspettarsi qualche guizzo, qualche movimento di macchina o, perché no, di stallo completo, inusuale, straniante. Invece è tutto molto american-style, a partire dall’abbattimento di Dieter in cui ho scorto l’uso della computer grafica… Brividi, il buon vecchio Stipetic che manipola le immagini con un computer… fa specie! A parte questo, che per un herzoghiano come me è quasi un tradimento, anche la struttura narrativa ricalca lo stile hollywoodiano. Dieter/Bale non entra neanche dalla porta di servizio nel clan degli eroi folli di Herzog perché lui È un eroe classico: sopravvive ad ogni sventura, dagli attacchi aerei alle sanguisughe, uscendone indenne neanche fosse Rambo. Capisco che le cose siano andate così nella realtà (ma fino ad un certo punto visto che la pellicola è stata definita "a dishonest film" da un sito creato ad hoc che denuncia la troppa importanza data alla figura di Dieter nella fuga dal campo di prigionia), però la pellicola, anche dal punto di vista estetico, non si discosta molto da una qualunque fiction in prima serata. Fortuna che Herzog, memore del suo passato, dimostra ancora di saperci fare in mezzo alla giungla, e dopo la fuga il film risolleva leggermente le sue sorti che fino a quel momento ristagnavano nella routine made in USA. Una routine dove all’eroe di turno è permesso tutto, anche di liberare prigionieri che stavano lì da mesi e mesi. Ma loro non ci avevano pensato a scappare?

Se Bale fosse nato qualche decennio prima sarebbe diventato una star del cannibal-movie vista la naturalezza con cui si muove in ambienti un tantino ostili con addosso quattro stracci. E poi è un grande trasformista, tutti quanti ricorderete la sua sconvolgente performance in L’uomo senza sonno (2004), anche qui perde qualche chilo per calarsi maggiormente nella parte, senza raggiungere fortunatamente (per lui) i livelli del film appena citato, ma risultando molto credibile. In quanto a magrezza non scherzano affatto anche gli altri prigionieri, tra cui spicca il bravo Jeremy Davies, uno di quegli attori di cui no si parla mai perché non hanno mai avuto grandi ruoli pur avendo recitato in film importanti.

Per un fan di Herzog L’alba della libertà è l’ultimo dei suoi film da vedere. Ma se di Herzog non ve ne frega un tubo bucato potrebbe anche piaciucchiarvi.

lunedì 19 ottobre 2009

Le onde del destino

Nonono, per ora io e Von Trier siamo piuttosto lontani. Nel suo modo di fare cinema non riesco a ri-trovarmi, vedo e mi scivola addosso, sento ed è come se non sentissi: senza metabolizzare, senza spingermi a pensare. Ad esclusione di The kingdom (1994), i suoi film finora visti sono connotati da una cifra stilistica che a lungo andare risulta irritante perché al di là di essa c’è poca roba. Nella trilogia E, ad esempio, Von Trier è di una spocchia insopportabile; mette in scena immagini eleganti ed innovative, ma la ricerca visiva supera di brutto la storia raccontata ed allora è dura arrivare fino in fondo. Così come lo è per Le onde del destino. Non c’entra la durata, seppur eccessiva, ma la terrificante banalizzazione che viene fatta dell’amore. La struttura narrativa, facilmente prevedibile (breve presentazione della coppia – unione felice – incidente – divisione drammatica – altro incidente – riunione ultraterrena), non ha mordente, vorrebbe mostrare ciò che per Saint-Exupéry è invisibile agli occhi. Poggiare un film intero su un legame sentimentale totale, completo e assoluto è praticamente un suicidio perché fallendo c’è il rischio di scivolare nel ridicolo involontario. Il fatto che Bess urli continuamente al mondo il suo amore nei confronti di Jan non fa altro che sterilizzare il suo sentimento agli occhi dello spettatore. Rendendo stucchevole il perno su cui si basa la storia, ovvero la storia d’amore, ecco che un sentimento più sconfinato dell’universo rimane intrappolato nel misero rapporto dei due protagonisti. Beninteso, non voglio assolutamente sminuire una relazione così intensa e così tragica che nella realtà cambierebbe senza mezzi termini la vita di due persone, ma riversata su pellicola e proposta in questa maniera (manieristica!) diventa una patetica allegoria dell’amore. Mi va di citare un libro a cui tengo molto ma di cui non farò il nome:

L’amore, ogni vero amore, esprime una forza unitiva che si evolve secondo l’armonizzazione fra mondi differenti conquistati a una comune identità. Ciò che è prossimo si fa prossimità, la bellezza si traduce in bene, la parola diviene gesto composto di premura, sollecitudine, tenerezza, elettività, concordia, forma umana dell’eccellenza.


Apparte che soltanto il mio ridicolo elucubrare limita di per sé questo tema, ma pensate voi se è possibile immortalare in un film le parole citate dal testo. Sì, è possibile, Kim Ki-duk con Ferro 3 (2004) ce l’ha fatta, e ci è riuscito senza far dire una parola ai due protagonisti, mentre qui Emily Watson, brava per carità, nel suo recitare eccessivo finisce per esibire il suo amore piuttosto che trasmetterlo a chi guarda. Lo mette in vetrina, lo grida una, due, dieci, mille volte senza che ce ne fosse bisogno. Ma un sentimento non necessita di tale sfoggio, può essere racchiuso in una parola, in uno sguardo, o in un fotogramma come questo che annienta in un batter d’occhio due ore e passa di girato. Beh, questo è quanto. Crociffigetemi pure. Le onde del destino è il primo capitolo della Trilogia del Cuore d'Oro che prosegue con Idioti (1998) per concludersi con Dancer in the Dark (2000).

venerdì 16 ottobre 2009

Il ritorno

Dopo dodici anni un padre ritorna dai suoi due figli Ivan e Andrej.
Duro e silenzioso, l’uomo non racconta nulla del passato. La madre, rassegnata, accetta che i bambini vadano ad una gita con lui. La gita diventa un viaggio verso un’isola disabitata in cui l’uomo deve prendere qualcosa, ma la sua lunga assenza nelle vite dei due ragazzi fa sì che più che un genitore sia diventato un vero e proprio fantasma.

Esordio alla regia per Andrej Petrovič Zvjagincev che con Il ritorno si è portato a casa parecchi premi in varie manifestazioni tra cui il Leone d’Oro a Venezia 2003.
Beh, per essere la prima volta che il regista si metteva dietro ad una mdp non si può che fargli i complimenti. Sarà anche l’ambientazione così affascinante simile a L’isola (2006), ma i sinuosi movimenti di macchina accompagnati da una fotografia plumbea e – soprattutto nella prima parte – spettrale, danno un tono enigmatico, oscuro, misterioso alla pellicola.
D’altronde anche il regista lo ha detto: “Il film accumula in sé una ricchezza di contenuti simbolici, di suggestioni, di indizi, di schegge di eternità, tutti ruotanti attorno a un unico corpo unificante che è quello del mistero.” E tale mistero si identifica con la figura del padre: non si sa cosa abbia fatto per tutto questo tempo, non si sa cosa contenga quella scatoletta da lui disseppellita in un vecchio casolare, non si sa nemmeno se sia realmente lui il vero padre. Ovviamente, facendo fede ad un tipo di cinema lontanissimo dal voler-spiegare-ad-ogni-costo, non viene chiarito nessuno di questi punti, depositando il dubbio nello spettatore.

Se il padre è il personaggio più sfuggente, i due ragazzini sono i veri protagonisti con il loro viaggio.
Il viaggio è spesso metafora del cambiamento: incontrando ci si scontra, scontrandosi ci si incontra. Il viaggio, che su un piano pratico può essere inteso come un movimento attraverso lo spazio e il tempo, è sempre un “passaggio” in se stessi oltre che nei luoghi visitati.
Il viaggio implica lo spostamento (i due bambini che si allontanano da casa); l’errare – nel duplice significato di vagare e di sbagliare – ( il continuo muoversi da un posto all’altro e la disobbedienza dei due fratelli agli ordini del padre); l’esperienza dell’inizio e della fine (dove l’inizio, qui, non è da collocare con la partenza del trio ma con il piccolo Ivan che non vuole buttarsi dalla torre di legno. Considerando l’intero film come un viaggio – interiore – la fine si riallaccia all’inizio, ma dentro se stessi i ragazzi sono cambiati).
Sebbene il padre appaia l’ingranaggio su cui si muove il film, in realtà è la tras-formazione dei due ragazzi ad essere la spina dorsale della storia. Nell’ottica del viaggio come cambiamento si nota di come poco prima del drammatico finale ci sia un simbolico passaggio di testimone: il padre dona il suo orologio ad Andrej; un viaggiatore che smarrisce il tempo termina di essere tale, e infatti dopo poco morirà. Ironicamente si potrebbe dire che era giunta la sua ora, seriamente dico che nel contesto filmico era “solo” una componente volta a cambiare (leggi: trasformare) la vita dei suoi figli.

Menzione speciale (e triste) per i due giovinetti che nella locandina assomigliano tanto al Viandante sul mare di nebbia (1818) di Friedrich per la stessa intensità contemplativa dell’infinito pur essendo di spalle. Triste perché Vladimir Garin, l’interprete di Andrej, morì a soli sedici anni poco dopo la fine delle riprese de Il ritorno. Che peccato, qui è stato bravissimo come suo “fratello” Ivan Dobronravov, deliziosamente imbronciato per tutta la durata di questo meritevole film.

martedì 13 ottobre 2009

Beş Vakit - Times and Winds

In un paesino ai confini del mondo si intrecciano le storie di tre bambini e delle loro famiglie.

Film turco del 2006 scritto e diretto da Reha Erdem che fu presentato in quell’anno al Festival del Cinema di Roma dopo aver girato l’Europa riscuotendo non pochi consensi, soprattutto al Filmfestival di Mannheim dove gareggiò nella categoria best film.
Beş vakit in italiano significa “cinque volte”. Secondo l’Islam un musulmano deve eseguire le preghiere rituali (salāt) cinque volte al giorno: al mattino; a mezzogiorno; a metà pomeriggio; al tramonto; un’ora e mezza dopo il tramonto.
E difatti il film è suddiviso in cinque capitoletti che scandiscono il momento della preghiera. Tali capitoli però vengono presentati anticiclicamente: si parte dalla notte con un fantastico Campo Lunghissimo notturno del paesino sovrastato dalla luna, e si conclude con una panoramica dell’orizzonte albeggiante.
In questo salto mortale all’indietro che inciampa in avanti ci vengono presentate le vite bucoliche di un grumo d’abitazioni sparse fra il mare ed i monti. Ruvidi ritratti agresti di genitori che trattano i figli come bestie, e le bestie come figli. Sospese nel tempo (e nel vento) queste famiglie vivono, o forse non-vivono, la loro esistenza che si ripete inesorabile: il terreno da coltivare, la nascita di un vitello, la costruzione di un muro. I bambini sono gli unici esseri che ancora non riescono a capire, o magari capiscono tutto: uno vuole uccidere ad ogni costo il padre Imam: gli svuota le pillole, apre la finestra di notte per far entrare aria fredda, fantastica di lanciarlo giù da una roccia. Un altro è innamorato della maestra al punto di non lavarsi più il dito sporco del sangue della donna.
Vivono di illusioni (ma chi non lo fa?), sono ancorati alla madre terra, fanno parte di essa immersi nell’erba, avvinghiati alle rocce. Ma nel finale sono costretti ad alzarsi in piedi, ad abbandonare il terreno che gli ha accuditi. Quando il primo bambino lascia la mano del padre morente, le lacrime bagneranno il suo viso di fronte ad un’alba infinitamente meravigliosa, e quando il secondo vedrà suo padre spiare la bella maestra dalla finestra capirà che l’amore è fatto soprattutto di sogni inafferrabili. I bambini sono cresciuti, ora non possono più restare sdraiati.
La bellezza estetica di Beş Vakit è sconvolgente. Ogni singola inqaudratura è di una profondità difficile da riscontrare in altre pellicole. Sia che la mdp riprenda di spalle i bambini vaganti nelle viuzze pietrose, o che immortali tramonti infuocati, il film non perde la sua cifra poetica che ha un valore aggiunto nella semplicità con cui cattura le cose: il bambino in ombra rannicchiato dentro sé che attende il sole sorgere (foto sotto) è di una delicatezza senza pari.
Purtroppo il difetto principe è che a cotanta bellezza visiva non corrisponde un racconto adeguato. Manca l’elemento imprescindibile della solida narrazione poiché le varie storie sono estremamente fragili, non incidono nello spettatore, sopratutto nella prima ora dove accade ben poco. Senza un impianto estetico di questo calibro il film sarebbe debole, ma per fortuna c’è.

Il Mereghetti sentenzia: ”... Un film che a volte rischia di affidarsi un po’ troppo al non detto e all'immagine ad effetto.” Concordo. Ma assicuro che l’immagine ad effetto fa il suo stupendo dovere.

sabato 10 ottobre 2009

Delta

Presentato a Cannes 2008, Delta è un film ungherese diretto da Kornél Mundruczó, discepolo del rinomato Béla Tarr, qui nelle vesti non ufficiali di aiuto-regista, principale esponente del cinema magiaro contemporaneo.
La storia racconta di un ragazzo silenzioso che ritorna nella sua casa sulle rive del Danubio. L’ambiente domestico non è dei migliori a causa del burbero patrigno, così decide di trasferirsi in una capanna sul fiume. La sorella, creatura delicata ma tenace, lo segue abbandonando la famiglia. I due fratelli iniziano a costruire una casa-palafitta sulle acque calme, ma la piccola comunità fluviale non vede di buon occhio la loro convivenza.

C’è molta maestria dietro questo film. Mundruczó riesce nella difficile impresa di rendere vivo il paesaggio che non risulta essere un contorno messo lì tanto per, e nemmeno uno sfondo piazzato per puro senso estetico. No, le acque del fiume, l’erba, il vento e la pioggia sono elementi meravigliosamente vivi, palpitanti, reali. La bellezza della natura contrasta con la bassezza degli uomini. Viene da domandarsi come sia possibile che in un posto così incantevole gli esseri umani riescano ad essere tanto meschini…
Quindi il paesaggio fa da contraltare all’infido villaggio che guarda di sottecchi i due fratelli, la cui relazione, incestuosa o meno che sia, non viene mai ripresa per il gusto di mostrare. L’unica effusione tra i due è un bacio che però avviene fuori campo, noi vediamo soltanto in Dettaglio i piedi della sorella che si alzano sulle punte.
Anche la violenza non viene mai messa in risalto. Lo stupro del patrigno è ripreso da molto lontano; l’unica cosa percepibile sono le urla della ragazza. Stessa “filosofia” nel finale, fotografato divinamente con quella lunga passerella sull’acqua che si perde nel buio, dove l’accoltellamento del fratello è celato allo spettatore. E prima che una ripresa aerea inquadri il suo giubbotto scorrere sul pelo dell’acqua, appare per un paio di secondi una schermata nera. Non è la classica dissolvenza in nero perché dura un pochino di più, ma può essere definita ugualmente silenzio visivo. In quel momento la narrazione si blocca, non si sa quanto tempo sia passato: una notte? Un anno? Resta solo una giacca che naviga solitaria nel fiume mentre la natura, maestosa e inafferrabile come sempre, resta impassibile anche all’orrore degli uomini.
C’è di cui pensare.

Ho dimenticato di dire una cosa.
Delta è un film che verrebbe definito cinema d’autore, o arthouse, o film d’essai. A dire il vero non so se siano esattamente dei sinonimi questi termini, ma credo che riescano a rendere bene l’idea di un film che non è stato pensato per vendere al botteghino, nelle nostre sale non c’è arrivato e dubito che mai ci arriverà, ma che rappresenta, come dice Exxagon: “la genuina espressione del proprio punto di vista [del regista], come le più vere espressioni artistiche”. Ciò significa che se vorrete guardare Delta sappiate che andate incontro a lunghe sequenze di silenzio, a dialoghi stringati e “cartoline” paesaggistiche molto suggestive ma che potrebbero anche annoiare.
Si tratta di abitudine. Io ormai questo tipo di cinema riesco ad apprezzarlo in toto, probabilmente un fan sfegatato del live action non andrebbe oltre i primi dieci minuti. Il che non vuol dire che l’amante di un film Marvel non capisca niente di cinema, anche perché a me, ad esempio, lo Spider-Man di Raimi piace una cifra, è solo una questione d’abitudine. Ci sono film “impegnati” che fanno pena e “americanate” che non smetterei mai di guardare. Basta essere obiettivi e non avere pregiudizi…
Vabbè mi sono dilungato troppo: Delta è un buon film.

mercoledì 7 ottobre 2009

La noia

Martin, professore di filosofia fresco di divorzio e stressato dalla vita, incontra nella casa di un pittore defunto la giovane Cecilia. Com’è come non è, cominciano a frequentarsi. Lei, che dell’ingenuità fa la sua arma inconsapevole, rende pazzo lui che sempre più nevrotico e possessivo sospetta un suo tradimento. Avrà ragione perché Cecilia se la spassa anche con un certo Momo, a questo punto Martin dovrà decidere se proseguire la relazione oppure troncarla definitivamente. Sceglierà la prima opzione.

Non avendo letto l’omonimo libro di Alberto Moravia non potrò far altro che descrivere le mie impressioni legate alla pellicola. Impressioni tutto sommato buone perché a fronte di un inizio stentato in cui la personalità schizzata del professore non emerge e tutto è parecchio piatto, con il prosieguo, grazie all’accendersi della passione, ecco che l’irrequietezza di Martin prende il sopravvento diventando persino simpatico nel suo logorarsi.
Il rapporto tra lui e Cecilia è esclusivamente carnale, scevro di un qualunque sentimentalismo (anche se Martin non riesce a capirlo), e connotato da una forma univoca di possessione: lui vuole lei, ma più che lei in sé vuole il suo corpo; è disposto addirittura a “dividerla” con Momo piuttosto che non averla del tutto. E pensandoci su, mi vien quasi da dire che non è Martin ad avere Cecilia ma il contrario, e quindi è sì una forma univoca di possessione ma inversa, è lei, sfuggente, ad aver lui… perché si sa che in amor vince chi fugge! Lasciando da parti questi detti banali, in questa storia non c’è amore, solo l’illusione di sfuggire alla vita che indifferente oscilla come un pendolo tra il dolore e la noia.

La noia. Avendo l’onere e l’onore di essere il titolo dell’opera mi aspettavo che avesse un ruolo più centrale nel film. La noia ritengo sia una forma costitutiva dell’uomo, come la paura. La paura dell’incontro è paragonabile alla noia dell’abitudine. Abituarsi ad una persona è noioso, lo dice anche Cecilia a Martin, eppure a volte non se ne può fare a meno. Curioso. Non si può decidere se annoiarsi o meno come non si può scegliere se avere paura o no, e se si cerca di combattere la noia si finisce sempre nelle sue braccia invisibili. Ed essa ci cinge portando alla disperazione, la stessa di Martin il quale non riesce a capire che il suo amore ossessivo fatto di continue domande deriva da una condizione esistenziale incerta, fragile, dolorosa. Ma come lo stesso professore ricorda nella lettera alla sua ex-moglie: “… adesso non credo più che si debba morire di disperazione, anzi credo che si debba nutrire questa disperazione invece di volerne sempre morire, bisogna viverne. Credo che si debba vivere ad ogni costo.”

Buon lavoro del protagonista principale, Charles Berling, inquieto al punto giusto, e della co-protagonista Sophie Guillemin, bambola di ceramica dalle forme ipnotiche (grandi grandi tette) che sprigiona indifferenza verso tutto e tutti, anche per suo padre morente.
Un po’ lunghetto, ma abbastanza fruibile.

Questo è il secondo adattamento cinematografico del libro di Moravia, il primo risale al 1963 ad opera di Damiano Damiani sempre col titolo La noia.

domenica 4 ottobre 2009

I figli degli uomini

In un futuro prossimo il mondo intero deve fare i conti con una terribile piaga: l’infertilità femminile. Da diciotto anni non nascono più bambini.
Theo (Clive Owen), antieroe con palandrana ed ex attivista politico, viene contattato dai Pesci, un gruppo rivoluzionario capeggiato dalla sua ex compagna Julian (Julianne Moore), la quale ha bisogno di un aiuto per portare oltre il confine Kee, una giovane ragazza di colore che rappresenta l’ultima speranza per l’umanità poiché incinta da otto mesi. Inizia così una drammatica odissea per giungere alla libertà.

Dal punto di vista estetico I figli degli uomini è una vera e propria gioia per gli occhi.
La mdp di Cuarón riprende spesso Owen di spalle con movimenti traballanti che danno un taglio molto realistico alla pellicola. Le ambientazioni post-atomicoindustrialbelliche sono ottimamente realizzate perché trasmettono desolazione e disperazione (poi io ci vado a nozze con ‘ste cose, mi fanno impazzire), bravura del regista sì, ma dev’essere anche la campagna inglese che si presta bene in quanto già Danny Boyle con 28 giorni dopo (2003) aveva messo in piedi un’apocalittica visione del futuro.
Ma è quando Theo e Kee entrano nel ghetto degli immigrati che Cuarón regala delle incredibili sequenze di cinema. Lo scenario metropolitano diventa campo di battaglia, ed è reso talmente bene da sembrare quasi un documento di guerra: spietato, crudele, vero. E il lungo piano sequenza con tanto di schizzo ematico sull’obiettivo alla Spielberg che sballotta Owen come una foglia nella tempesta, è veramente da antologia.

Ma non vorrei che tutta questa beltà artistica fungesse da specchietto per le allodole. Il fumo abbonda, ma sotto sotto di arrosto ce n’è pochino. Come sottolineato da una recensione su Gli spietati, nel film tutto è urlato, sparato in faccia allo spettatore. Si procede all’insegna del sensazionalismo più sfrenato made in Hollywood. Niente viene celato: dal tizio dilaniato dalle bombe alla giovane Kee che partorisce la sua figlioletta sul materasso di una zingara.
Cuarón decide per noi chi è buono è chi è cattivo, e in un film imbevuto di politica fino al midollo mi sembra la cosa più sbagliata da fare.
Non mi ha entusiasmato troppo nemmeno il finale. Ma questa è un mio pallino, non amo i finali buoni, troppo tanto finti, troppo poco reali. Quanto sarebbe stato più cattivo il film se alla fine su quella barca il sangue fosse appartenuto a Kee? Un bel po’, più che altro sarebbe stato più vero perché nella vita reale l’happy end non è contemplato. Ma capisco che almeno il cinema è giusto che resti separato dal mondo esterno donandoci una speranza… o forse no…

Due piccole curiosità.
La prima: ad un certo punto viene menzionato che nel 2009 una grave pandemia colpì la terra. O Cuarón legge il futuro oppure porta sfiga di brutto.
La seconda: per tutta la durata del film Owen indossa una felpa con su scritto “London 2012”. In quell’anno nella capitale inglese si svolgeranno le prossime olimpiadi.

venerdì 2 ottobre 2009

L'ignoto spazio profondo

Alfa Centauri è il sistema stellare più vicino a noi, dista dalla Terra 4,3 anni luce.
Se nel Paleolitico qualcuno avesse lanciato un’astronave in direzione di Alfa Centauri, oggi non sarebbe ancora arrivata. Ed anche se fosse, tralasciando le questioni genetiche, molto probabilmente con il susseguirsi delle generazioni si sarebbero persi nel tempo lo scopo e la meta del viaggio.
Non vi mette una malinconia atroce questa cosa? A me sì perché mi ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, di come il nostro pianeta sia un microscopico granello disperso nell’infinito. Parimenti trovo incredibile che su questo granello azzurro ci sia della vita. A pensarci bene c’è del miracoloso, e tirare in ballo la gloria di colui che tutto move per l’universo penetra e risplende sembra l’unica spiegazione comprensibile. Ma che ci sia un dio oppure no, la Terra per ora è nelle nostre mani, e dobbiamo ricordarcelo bene.
Herzog deve pensarla all’incirca così perché con L’ignoto spazio profondo chiude una pseudo trilogia che è un monito per noi e per chi verrà dopo. Sia in Fata Morgana (1971) che in Apocalisse nel deserto (1992) accompagna lo spettatore in un mondo, il nostro, che però sembra un altro mondo, riuscendo a farci sentire alieni sul nostro pianeta. Ma questo ribaltamento richiama con forza invisibile l’obbligo di tutelare la Terra. Certo, il messaggio è tutt’altro che chiaro in quanto la suddetta trilogia rappresenta l’Herzog più visionario, mistico e contemplativo di sempre, però il sottotesto è vivo e rappresenta un manifesto per l’umanità intera.

Il fatto che Brad Dourif reciti un requiem per la Terra nelle vesti di un triste alieno dovrebbe farci capire a noi ingenui terrestri di come sia precario l’equilibrio su cui poggiamo la nostra esistenza: può bastare un microbo incastrato su un arrugginito disco volante per scatenare un’epidemia. E allora il viaggio verso un nuovo pianeta a bordo di un’astronave (in realtà sono filmati presi direttamente dall’archivio della NASA) è un viaggio della speranza per un nuovo inizio.
Qui Herzog si mostra pessimista nei confronti del genere umano: arrivati sul nuovo pianeta che si presenta liquido con un cielo di ghiaccio (le immagini sono state riprese sotto la calotta polare antartica), gli astronauti si prendono gioco degli animali del posto e pensano immediatamente ad una successiva colonizzazione. Al loro ritorno la Terra è un pianeta disabitato come l’Ignoto Spazio Profondo.

Ma chi erano i veri alieni? Dourif o gli astronauti? Entrambi, reciprocamente. Mi piace pensare che per un qualcun altro con le nostre stesse paure sperduto nell’infinità del cosmo noi siamo degli alieni, è rassicurante. Fa sperare. In fondo la nostra condizione è così precaria, se fossimo soli nell’universo su questo sassolino che ruota intorno al sole sarebbe tutto molto triste… io spero che nelle profondità dello spazio ci sia qualcuno che in questo momento stia scrivendo la recensione di un film così come sto facendo io. E domandarsi quanto dista la sua Alfa Centauri, quanto è distante un suo simile. Sento che a volte l’infinito è già qua, tra di noi… quanto costa una parola, una carezza… c’è uno spazio assiderale che divide le persone, forse è per questo che l’alieno Dourif ha fallito la colonizzazione terrestre, come si può incontrare l’altro se prima non ci si è incontrati fra di noi?

…no, non è una recensione, mi accorgo che del film ho parlato poco o niente. Mi dispiace per tutti quelli che cercheranno pareri su L’ignoto spazio profondo, mi dispiace tanto, ma io dopo quasi due anni di blog sono un po’ stanco e a volte mi lascio trasportare dai miei pensieri che sono infinitamente più autentici di un’opinione cinematografica.