lunedì 30 marzo 2009

La samaritana

Prima di tutto, prima di due ragazzine che si prostituiscono, prima di padri di famiglia che pagano queste ragazzine in cambio delle loro prestazioni sessuali, prima di un padre poliziotto incazzato nero, prima di una suddivisione del testo filmico in tre capitoli, prima di ogni interpretazione semiotica degna del miglior Umberto Eco, prima di tutto questo, dunque, emerge la scelta di Kim Ki-duk. Quella di affidarsi, per una volta, alle parole. Non ci sono i silenzi delle sue opere precedenti, e future (L’arco, 2005), ma una sceneggiatura irrobustita da dialoghi che nei lavori del cineasta coreano sono vere e proprio mosche bianche.
I primi due capitoli, Vasumita e Samaria, non sembrano neanche partoriti dalla (geniale) mente del regista di Bonghwa. La telecamera è spesso “a spalla” con inquadrature traballanti che seguono da vicino i protagonisti, in una città, Seul, che appare più occidentale di una città occidentale. Non c’è spazio per la poesia di Ferro 3 (2004) o di Primavera… (2003), no. C’è una ragazzina che si prostituisce e una sua amica che le fa da pappona tenendo contabilità e contatti. Il tutto per comprare un biglietto aereo destinazione Europa. Di solito non mi soffermo più di tanto sulle sfilacciature di una trama, soprattutto se si tratta di cinema orientale, e in particolare di Kim Ki-duk. Ma nei primi due capitoli le imperfezioni ci sono e si sentono: perché le due giovinette non cambiavano motel per gli incontri sapendo che la polizia ormai le aveva beccate? E che “strana” coincidenza il fatto che il padre presenzi la scena di un delitto, e affacciandosi casualmente alla finestra veda la figlia che si fa montare da un tizio. Inoltre il suicidio della piccola prostituta è tanto repentino quanto immotivato.
Interessante, però, di come l’amica prenda il suo posto identificandosi con lei. Prima era solo la sua voce, poi diventa anche il suo corpo. Si potrebbe vedere l’una come il doppio dell’altra, con la protagonista che però si sente come in soggezione nei confronti dell’amica, forse a causa della sua formazione cattolica, ma che con la morte di quest’ultima, essa si responsabilizza facendosi carico di una missione: quella di restituire i soldi guadagnati, ma il prezzo da pagare è troppo alto per il padre.

La samaritana al pozzo è un episodio descritto nel vangelo giovanneo, la donna in questione è una peccatrice che ha avuto una vita dura. Ma l’incontro con Gesù nei pressi di un pozzo, cambia profondamente la sua esistenza.
La samaritana di questo film non ha avuto un’infanzia difficile per quel che ci è dato sapere. Ma di certo non apprezza la sua condizione se decide di partire per l’Europa. La condotta che ha non è ammirevole, ma nel terzo capitolo, Sonata, il più kimmiano dei tre, accade qualcosa.
Padre e figlia si allontanano dalla fredda città per smarrirsi, e quindi ritrovarsi, sulle montagne dove è seppellita la madre. Immersa nella natura, la samaritana ritrova la strada giusta nella bella metafora dell’auto e delle pietre colorate. Ma la conclusione non è a lieto fine. Appena finito il percorso disegnato dal padre, l’auto guidata dalla ragazzina incappa in buche e pozzanghere su di una strada che sarà la vita, la sua.

Spesso rileggendo le mie recensioni mi accorgo che alla fine non si capisce se un film mi sia piaciuto o meno. Quindi sarò diretto questa volta: no, non mi è piaciuto. E la motivazione non va ricercata nei difetti o nelle imperfezioni, ma nel fatto che Kim Ki-duk mi aveva abituato sempre a qualcosa di straordinariamente bello, mentre La samaritana è soltanto ordinariamente bello.

sabato 28 marzo 2009

Intervista col vampiro

Probabilmente, anzi senza probabilmente, il film più conosciuto di Neil Jordan.
E non poteva essere altrimenti visto gli attori che calcano la scena: Brad Pitt, Tom Cruise, una giovanissima Kristen Dunst, Antonio Banderas, Christian Slater e Stephen Rea ( La moglie del soldato, 1992), quest'ultimo fedelissimo del regista irlandese. Se a ciò si aggiungono gli effetti speciali di Stan Winston e le scenografie di Dante Ferretti il piatto (hollywoodiano) è servito.

Beh beh beh beh beh, niente male davvero.
La figura del vampiro è tra le più affascinanti nell’universo dei mostri: eterno ma fragile, costretto a rinunciare alla luce per vivere la notte. Un cacciatore le cui prede sono ciò che egli stesso è stato in un passato più o meno remoto. Si nutre di sangue e non ha rimorso di affondare i suoi canini nel collo di qualche giovinetta. Cioè, di solito non dovrebbe avere alcun rimorso, ma cosa accade se un vampiro non ha ancora abbandonato del tutto le vesti di umano?
Su questa domanda poggia il film che ha in Brad Pitt un personaggio in balia delle emozioni anche se passa le giornate dentro ad una bara. Vedovo, ritrova nella piccola Claudia, da cui deve essersi ispirato l’autore di Lasciami entrare (2008) per Eli, la moglie e la figlia scomparsa prematuramente. Ma il laccio che lega i due stringe come un cappio il triste Luis, e pur trattandosi di una bimbetta, Claudia rovescia il rapporto adulto-bambina, diventando la vera mente del duo.
Se Luis rimpiange la morte, anche Claudia invidia le donne che possono essere tali, in quanto lei è una bicentenaria intrappolata nel corpo di una undicenne. Visto che la storia è ambientata fra il 1791 e il 1993, entrambi avrebbero potuto fare un passo a Vienna a cavallo tra ‘800 e ‘900, un tizio di nome Sigmund avrebbe potuto aiutarli.

La prima ora scorre via liscia con l’intreccio Pitt-Cruise-Dunst, dopo la dipartita (temporanea) dell’ex marito di Nicole Kidman la vicenda perde un po’ di interesse ma si mantiene su buoni livelli. L’entrata in scena di Banderas occupa il “vuoto” lasciato da Cruise, ma dopo la morte della bambina il film ha ormai poco da dire, anche se quel poco lo dice abbastanza bene.
Menzione speciale per la scena in cui Luis si reca in una sala cinematografica e afferma con commozione di essere riuscito a vedere per la prima volta l’alba dopo centinaia di anni. Grande metafora, il cinema come finestra per il mondo, ebbravo Neil.

Oltre all’eleganza della messa in scena che ha il suo apice nelle catacombe parigine, la prova attoriale degli interpreti è notevole. Su tutti Tom Cruise che impersona alla grande il ruolo di vampiro cattivo. Bravissima la giovane Dunst, forse la migliore, mentre un po’ troppo di marmo Brad Pitt, ma questo vale un po’ per tutti i suoi film, a cui non bastano due occhi diafani per renderlo un succhiasangue tenerone.
Valido dai, per una serata in compagnia è ok.

giovedì 26 marzo 2009

Martyrs

Perché ho avuto l’impressione che tutta la baracconata messa in piedi sia stata solo un pretesto per mostrare le solite torture/scuoiamenti/sbudellamenti/scarnificazioni?

Mmm.
Penso.

Ripenso, mumble mumble...

Finito: boh.

Allora, c’è una ragazzina di nome Lucie, torturata per anni, che riesce a scappare dai suoi aguzzini. Dopo questo soggiorno non proprio di salute, ne esce un tantino lacerata, così si sente sempre inseguita da un mostro che vuole ucciderla. Fortuna che nel collegio dove viene portata incontra un’altra ragazzetta, di nome Anna, con cui stringe una forte amicizia, o forse qualcosa di più.
Quindici anni dopo, Lucie si reca nella casetta di una famiglia perfettina, e con un fucile fa secchi tutti, in quanto colpevoli, secondo lei, di essere stati i suoi seviziatori. Sarà vero?

Intanto Anna la raggiunge nella casa, e scoprirà che sì, era tutto vero. Anzi, capirà a sue spese, di quanto fosse tutto vero.

Ma che differenza c’è tra un malato terminale che coinvolge in macabri giochetti le sue sventurate cavie, e una sorta di congrega segreta alla ricerca di un martire, se in fin dei conti utilizzano lo stesso mezzo per raggiungere i propri scopi, ossia quello della violenza nuda e cruda senza filtri?
Che i francesi siano diventati dei leader in questo campo è ormai assodato. Ma per quanto mi riguarda, almeno di ciò che ho visto, niente è da ricordare nei secoli a venire. Calvaire, Saint Ange (dello stesso regista, Pascal Laugier), Alta tensione, sono discreti, regalano anche buoni momenti, soprattutto il film di Aja, ma comunque niente di memorabile. E Martyrs conferma tutto ciò.
Se per molti, a quanto leggo, è considerato come un punto d’arrivo per il cinema horror, per me è una delle tante pellicole di questo filone uscite negli ultimi anni che tra l’altro riprende, senza riuscirci troppo, alcuni generi come rape & revenge con Lucie che torna dai suoi aguzzini armata di doppietta e una massiccia dose di incazzatura, horror orientali con quella bestiaccia che striscia nell’oscurità, e il recente torture-porn, con i continui calcioni/schiaffoni/pestoni ai danni di Anna.
Teoricamente non è un limite questa pelle camaleontica, ma nella pratica Martyrs non convince, almeno non come pietra miliare del genere.

Seguendo lo schema che ho proposto qua sopra, direi che la parte iniziale della vendetta è buona. Senza se e senza ma Lucie irrompe nella casa e uccide tutti. Un po’ come i due di Funny Games, anche se qui gli intenti di fondo sono più terra terra. Le apparizioni del mostro sono ben fatte grazie ad un montaggio veloce che non lascia respiro. Dopo la morte di Lucie il film decolla con il suo momento migliore: la scoperta di Anna della cella sotto la casa con conseguente prigioniera – e a proposito, se ‘sti simpaticoni della setta volevano vedere la luce che illumina gli occhi di un moribondo, perché a questa povera crista gli hanno trapanato il cervello per avvitarci una mascherina di ferro?- , dopodiché c’è il tracollo. Le riprese si concentrano soltanto su Anna che si becca una marea di botte da un tizio, e di conseguenza diventano statiche, fredde, ripetitive, scontate.
Lo scotennamento finale poi, è un po’ la ciliegina su di una torta, che come quasi sempre accade negli horror, ha una sceneggiatura scricchiolante al tal punto che mi sono alzato per andare ad oliare la porta della camera. Invece era il film.

Le due protagoniste (Mylène Jamapnoi e Morjiana El Alaoui), che vedete nella locandina con il loro bel nasino all’insù, sono due gran belle gnocche. Non so se essere felice o meno (per l’economia del film) del loro appena accennato legame saffico, ma mi sono apparse credibili, anche se ad esser sinceri non fanno altro che urlare istericamente coperte da croste di sangue per tutto il film, però oh, che bone!

Ah, comunque io so cosa ha visto la martire alla fine, lui:
Se no la vecchiaccia malefica che si è ammazzata a fare? ;)

mercoledì 25 marzo 2009

EEEEEEEEEEEEEEEEEH!

Il 25 Marzo è, per il Cristianesimo, il giorno dell'annunciazione del signore.
Il 25 Marzo del 325 il Concilio di Nicea sposta la data tradizionale dell'equinozio di Primavera dal 25 Marzo al 21 Marzo.Il 25 Marzo del 1479 Venezia conclude la pace con l'Impero ottomano perdendo tutti i propri possedimenti in Grecia.Il 25 Marzo del 1655 Titano, il più grande satellite di Saturno, viene scoperto da Christian Huygens.
Il 25 Marzo del 1876 Agostino Depretis diventa il Presidente del Consiglio del Regno d'Italia per la prima volta.Il 25 Marzo del 1944 si conclude con un fallimento per le Forze Alleate la terza battaglia di Montecassino.
Il 25 Marzo del 1985 il film Amadeus di Milos Forman vince otto premi Oscar.Due anni dopo nasce Eraserhead.
Ehi! Sarei io :(:)

martedì 24 marzo 2009

Un prete vampiro con gli occhi a mandorla

Ecco il trailer dell'ultima fatica di Park Chan-wook, Thirst.
Vedremo che ha combinato dopo lo strambo I'm a Cyborg, But That's Ok.

lunedì 23 marzo 2009

L'arco

E lei volò fra le tue braccia
come una rondine,
e le sue dita come lacrime,
dal tuo ciglio alla gola,
suggerivano al viso,
una volta ignorato,
la tenerezza d'un sorriso,
un affetto quasi implorato.

La sublimazione è il passaggio diretto dallo stato solido allo stato aeriforme, senza passare per lo stato liquido.
Il cinema di Kim Ki-duk è sublime. Galleggia nell’etere, dondola nell’aria con la dolcezza propria di una piuma.

NOI E LORO

Anche questa volta la trama è esilissima: un vecchio pescatore, un arco, una ragazza, un barcone, il mare. Se in Ferro 3 (2004) la mazza da golf è la spina dorsale del film, qui è un arco che scandisce la vita sulla barca del pescatore e della ragazzina di cui non conosciamo niente: né i loro nomi, né la loro voce. Sappiamo soltanto che il vecchio attende la maggiore età della giovane per poi sposarla. A differenza de L'isola (2000), dove le casette sembravano formiche nel deserto, la barca, qui, riesce ad inglobare dentro di sé il mare, e quindi una situazione potenzialmente intrisa di solitudine, viene vissuta dai due con grande serenità, in equilibrio perfetto. Ma questa sfera intima viene bucata dall’arrivo di un giovane pescatore che si innamora della ragazza. È qui che si comprende di come noi spettatori siamo soltanto dei testimoni, semplici intrusi che spiano. Il maestro coreano utilizza il sonoro diegeticamente ed extradiegeticamente, stordendoci. È diegetico quando crediamo che la musica (da pelle d’oca) faccia parte dell’universo narrativo della finzione filmica, ed ecco che cessa quando la ragazza si toglie le cuffiette. È extradiegetico quando il vecchio utilizza l’arco come fosse un violino. Ma è davvero così? Siamo certi che la musica avvertita dalla ragazza non sia una finzione, e che invece l’arco del vecchio sia capace di diffondere realmente quella dolce melodia? Non ci è dato saperlo perché non abbiamo alcun “potere” sulla storia, sappiamo solo ciò che vediamo e sentiamo, nient’altro. Non siamo molto diversi dai pescatori che arrivano sul barcone.

IL VECCHIO E L’ARCO

L’arco di per sé è un’arma. Un’arma che offende.
Qui, invece, è anche un’arma, ma non solo quello. Diventa prima di tutto uno strumento musicale, e in secondo luogo una sfera di cristallo attraverso cui il pescatore predice il futuro. Ma soprattutto vi è una identificazione fra il vecchio ed il suo arco. Egli è come la sua arma: se le frecce sono aggressive egli lo è a sua volta con chi vuole portare via dalla barca la ragazza. Ma se l’arco è capace di partorire quella melodia meravigliosa, l’uomo allo stesso tempo è in grado di aspettare pazientemente il giorno in cui lei diverrà maggiorenne segnandolo con un cuoricino sul calendario.
E quella melodia è la stessa che accompagna la sequenza più intensa di tutto il film: il collo del vecchio è stretto da un cappio collegato alla barca che sta portando via la sua amata, un cordone ombelicale che lega ancora i due e che ancora non può spezzarsi. Infatti lei ritorna come una rondine, e le sue dita come lacrime dal ciglio alla gola suggerivano al viso, una volta ignorato, la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato.

“FORZA E MUSICALITÀ, COME UN ARCO TESO…VOGLIO VIVERE COSì PER SEMPRE”

Si arriva alla fine, dunque.
Se il vecchio è l’arco allora solo lui può spezzare quella corda che li lega. Svolta la cerimonia nuziale, i due si allontanano al largo con una barchetta, e dopo aver spogliato la giovane, il pescatore punta il suo arco verso il cielo e scaglia l’ultima freccia, per poi sparire nelle acque del mare. La barchetta con a bordo la ragazza addormentata ritorna al barcone dove ad attenderla c’è il giovane pescatore. All’improvviso quella freccia scoccata nel cielo piomba fra le gambe della giovane, che come trasportata da una scossa, inizia un amplesso con un’entità invisibile. Il suo vestito si macchia di rosso. È la rottura dell’imene, e di quella corda che li legava. Poco dopo il giovane salta sulla barchetta mentre il barcone inizia ad inabissarsi. Ora la ragazza è diventata una donna. Libera di conoscere il mondo.

Sono sempre un po’ restio nell’affibbiare il termine capolavoro ad un film perché ho paura. Paura di essere smentito in quanto un giudizio è sì soggettivo ma l’implicazione di una tale eccellenza ha una forte oggettività che si basa su delle competenze in questo campo che io non possiedo, ma che riesco, almeno credo, ad intuire. Inizialmente non volevo scriverlo, ma dopo averci pensato un paio di giorni ho trovato il coraggio: L’arco è un capolavoro.

venerdì 20 marzo 2009

Spring

To greet every new day that may come
like the first of spring

Like the first of spring

giovedì 19 marzo 2009

Nosferatu, il principe della notte

Non ho mai visto Nosferatu il vampiro di Murnau, e quindi molto probabilmente non avrò colto rimandi e/o citazioni alla pellicola del 1922. Dunque le mie impressioni potrebbero risultare “monche”: cioè uno potrebbe venire a dirmi che se non ho visto l’originale non avrò capito un cazzo di questo. Legittima osservazione, ma io sono convinto che il paragone non è un metro di giudizio attendibile. E quindi non è che togliendo qualcosa da A per darlo a B, o viceversa, si puo' giudicare un’opera.Nosferatu, il principe della notte è un film che Herzog ha voluto girare per creare un ponte fra il vecchio cinema tedesco e quello recente. Il buon Werner riteneva l’opera di Murnau un capolavoro assoluto, il più importante film mai prodotto in Germania. Per onorare al meglio questo compito affidò al suo amico/nemico Klaus Kinski il ruolo di Dracula, mentre a Isabelle Adjiani (Possession, 1981) e Bruno Ganz furono affidati i ruoli di Lucy Harker e Jonathan Harker, quest’ultimo doppiato in italiano da Ferruccio Amendola.
Poteva Herzog girare un “semplice” film di vampiri? Sì, ma non si è fermato a questo. Che la pellicola tragga spunto dal romanzo di Bram Stoker è evidente, ma c’è dell’altro.
Premettendo che l’intera pellicola è ben lontana dai ritmi a cui siamo abituati per quanto riguarda un film dell’orrore, Nosferatu può essere diviso in due tronconi. Nel primo Jonathan Harker si reca al castello del conte Dracula per affari e qui fa conoscenza del padrone di casa. Sorvolando sul fatto che io appena visto il vampiro sarei fuggito a gambe levate lasciando soltanto il mio ologramma tipo Bip-Bip, appare in tutto il suo mistero il personaggio interpretato da Kinski che sembra far parte della notte. In alcune eccellenti inquadrature soltanto la sua testa bianca sbuca dalle tenebre alzando di non poco il mio personale “fear level”. Ciò che più risalta è però quanto il vampiro sia poco vampiro e tanto uomo, e di come la sua vita eterna sia vissuta più come una condanna che come un dono. Nella prima parte dunque si delineano per bene i personaggi con un occhio di riguardo alla natura, che come sempre nelle opere del regista tedesco, ha una notevole importanza.

Ma è nella seconda parte, in cui il conte Dracula si reca a Wismar per moredere il collo di Lucy, che Herzog si allontana maggiormente dai canoni dell’horror. Dopo che Jonathan viene morso dal vampiro, quest’ultimo è come se avesse assorbito un po’ della vita dell’uomo. Le parti s’invertono: Jonathan diventa abulico, depresso, sull’orlo della follia. Il conte invece acquisisce vitalità, slancio verso un amore che non può avere ma che desidera fortemente. E infatti, verso la fine, Lucy concede il suo collo al vampiro, ma quella scena è carica di erotismo (notare dove Kinski appoggia la mano), e questo amplesso al sangue dura fino al mattino, fino a quando la luce penetra dalle finestre e secca il conte Dracula. Si possono fare diverse interpretazioni, ma io voglio credere che Lucy vedesse nel vampiro il suo Jonathan e che il vampiro si sia lasciato sorprendere dal giorno perché dopo tanto tempo, o forse per la prima volta, si sentiva vivo.

Alcuni critici vedono la metafora del nazismo nell’esercito di topi che arriva con la barca fantasma. Topi bianchi che invadono la città e la mente dei suoi abitanti i quali credono che un’epidemia di peste stia mietendo vittime fra i cittadini. E qui Herzog regala scene ad alto tasso visionario: delle persone danzano in una piazza fra bare maiali e topi. Alcune sono sedute ad un sinistro banchetto che definiranno “ultima cena” agli occhi di un’incredula Lucy. Sembra una città devastata dalla guerra, l’ultima danza sul cratere del vulcano.
Ma come ho scritto poco fa i ritmi sono lenti, e la paura, escluso Dracula, è praticamente assente. Bisogna accettare che questo NON è un film horror, o almeno non soltanto. Se siete alla ricerca di uno slasher movie o di un torture porn allora è meglio che vi teniate alla larga.

mercoledì 18 marzo 2009

L'isola

Una luna tremolante graffia la superficie del lago in una notte immobile. Piccole casupole colorate sono antri per pescatori solitari, assassini in fuga e borghesi puttanieri. Una donna, novella Caronte, di giorno trasporta anime dalla riva alle casupole e di notte si concede ad esse in cambio di soldi.
Nell’apparente immutabilità di una natura perennemente ciclica, l’imbarcazione di questa donna ferisce in silenzio le acque torbide del lago, e mentre la mdp spia dietro i vetri appannati delle casette, nasce un amore in questa sterminata distesa di liquido amniotico.

Complessa, e mi permetto di affermare, acerba opera di Kim Ki-duk che modella una storia in cui un uomo e una donna, persi in un lago fuori dal tempo, abbandonano se stessi alla violenza della morte e dell’amore. Figure simmetriche e solitarie, però lontane, che si congiungeranno solo dopo una crudele prova in cui ripescheranno, nel vero senso della parola, loro stessi. Ami che scivolano lungo l’esofago, o che deturpano una vagina, thanatos e eros che si sfiorano sulle punte di un pennello.
L’isola, luogo poetico e metafisico prima che i reality show ne prendessero possesso, ha una dimensione intima pulsante dove la passione esplode in maniera catartica spogliando i due innamorati di ogni insicurezza e perbenismo, rendendoli dei selvaggi disposti ad uccidere, e uccidersi, per amarsi. Lacerazioni carnali, sesso brutale e torture ad animali sono il contrappasso da pagare poiché ogni passione nasconde un lato di dolore.

Si accusa, però, come mai mi era capitato in un film di questo regista, il peso del silenzio. Davvero assordante la mancanza di una spiegazione, che questa volta non si riesce ad intuire negli sguardi o nei gesti degli attori, al punto che nella prima mezz’ora si fatica a capire i ruoli di ogni singolo personaggio.
Il preludio di Primavera...

lunedì 16 marzo 2009

La moglie del soldato

Il film che valse l’Oscar del 1993 come miglior sceneggiatura originale a Neil Jordan è una storia che ha una bella sorpresa. Il furbetto titolo italiano, l’originale è The Crying Game, svia fin da subito l’attenzione dello spettatore. Per un’ora buona questo dramma politico sentimentale scorre sui binari dell’ordinarietà. Poi Fergus, il protagonista, spoglia la bella (insomma) Dil, e trova una sorpresina dentro l’uovo.

La scoperta che fra le gambe di Dil c’è qualcosa che non dovrebbe esserci mette un po’ di pepe ad una vicenda piuttosto dozzinale anche se ben orchestrata nel suo complesso. Ciò che emerge maggiormente è la forza del racconto, la solidità di un impianto studiato bene ma purtroppo un po’ troppo freddo, poco coinvolgente. L’attore principale Stephen Rea, vincitore di un Oscar per questo ruolo, dovrebbe essere un terrorista gentiluomo. Ok, il problema è che gli riesce troppo bene. Imbambolato e un po’ rimbambito sembra tutto fuorché un assassino. L’aspetto più interessante del suo personaggio non viene detto chiaramente da Jordan, ma può essere interpretato, e quindi soggetto a contestazione (non insultatemi troppo che sono sensibile). Io ho notato una forte attrazione di Fergus nei confronti di Jody (Forest Whitaker), e con la morte di quest’ultimo questo interesse viene riversato in Dil. Dopo la rivelazione sulla sua natura, Fergus è palesemente disorientato, e quando decide di lasciarla(o), la veste con gli stessi abiti di Jody e le taglia i capelli come li aveva il soldato. Allo stesso modo, il travestito, vede in Fergus il suo soldato e prova la stessa paura di perderlo.
Ecco, questo scambio di ruoli è la cosa migliore di un film vedibile, ma non pienamente appagante.

mercoledì 11 marzo 2009

Cuore di vetro

Difficile, ma che dico, criptico fino all’indecifrabilità, lungometraggio herzoghiano del 1976 ambientato in un periodo imprecisato dell’800 in cui si narra la storia di un piccolo villaggio bavarese la cui economia è sorretta da una vetreria che produce un particolare vetro denominato rubino. Ma la formula per ottenere questo rubino è conosciuta soltanto dal mugnaio, e quando il mugnaio muore il proprietario della vetreria esce matto per cercare di ricreare quel magico vetro. Il veggente Hias, che aveva predetto tutto questo, viene rinchiuso in una prigione, ma dopo essere scappato ritorna nel bosco dove ha un’ultima visone.

Ora mi guzzanizzo: visioni sgranate, piroettante nullità, esercizio stilistico per palati di platino laccati in oro affascinati dall’irrazionalità audio-visiva. Attori in trance ipnotica scollegati tra loro e con se stessi, periodi e personaggi sconnessi. Tra fiamme scintillanti che creano forme di vetro, e segreti sotterrati in una bara, il messaggio di fondo, se mai ce ne fosse uno, si perde nelle parole sghembe del profeta.

A leggere molte recensioni lo si dipinge come un mezzo capolavoro. Si parla di fine del mondo, di apocalisse naturale umana e atomica, di ciclicità temporale, del tempo, di Dio, della tristezza e della malinconia.
Boh, io vedendolo quasi quasi rimpiangevo Zulawski.

lunedì 9 marzo 2009

Address Unknown

Duro, durissimo film di Kim Ki-duk del 2001 che può essere riassunto nella locandina che vedete qui sopra: un grido di dolore struggente.
Meno poetico rispetto alle sue opere recenti, ma più “cattivo”, il regista sudcoreano dipinge l’affresco di una piccola cittadina coreana, Pyongtaek, in cui si è insidiata una base militare americana.
Storie che s’incastrano in questa landa desolata:

Chang-Guk lavora insieme al compagno di sua madre in una “macelleria” per cani, egli è figlio di un soldato americano di colore, e la madre, ex-prostituta, scrive ogni giorno al padre naturale in America. Ma le lettere ritornano sempre indietro con la dicitura, appunto, “indirizzo sconosciuto”.

Jihum è un giovane timido che non sa l’inglese e per questo picchiato da due coetanei. Suo padre, reduce di guerra, aspetta da anni un riconoscimento per aver ucciso in guerra tre comunisti.

Eunok è una giovane ragazza che da bambina ha perso un occhio a causa di uno stupido gioco col fratello fannullone. La sua bellezza attira le attenzioni di un militare americano che le fa la corte e le promette di guarirle l’occhio in cambio del suo amore. Le cose però non sono così idilliache, il soldato si rivela un tossico schizzato che le alza le mani (ma forse non c’entra solo la droga), ed intanto Enouk ama il giovane Jihum.

Come spesso accade con chi sa usare il linguaggio cinematografico, la violenza che fa più male è quella che non si vede. La pozzanghera sulla quale vengono uccisi i cani a bastonate fa rabbrividire al pari della crudeltà con cui il “macellaio” tratta il suo aiutante Chang-Guk, ma lo stesso Chang-Guk, così refrattario alla vista di un cane ammazzato, picchia ripetutamente la madre. L’odio, la violenza e il sangue, sono i fili conduttori della vicenda. Ma Kim Ki-duk non sembra stigmatizzarli proponendo una qualsivoglia morale. Assolutamente no. Si avverte di come gli eventi accadono perché così deve essere, senza artifici filmici. Si respira la vita in Address Unknown.
Un film corale, in cui all’inizio si è disorientati dalla mole di personaggi che calcano la scena, ma col passare dei minuti i ruoli divengono sempre più chiari grazie anche agli attori che sono eccellenti e caratterizzano divinamente il proprio personaggio. Fantastico il triangolo amoroso tra Eunok, Jihum e l’americano. La ragazza arriverà ad asportarsi l’occhio, dopo che le era stato curato, perché l’amore obbligato del soldato è un prezzo da pagare troppo alto per lei.
Vendette e antichi rancori. Il macellaio morirà come un cane ucciso da Chang-Guk, il quale a sua volta, uscito fuori strada con la moto andrà ad imbucarsi in una pozza di fango che con il freddo gelerà, e di lui non rimarranno che le rigide gambe fuori dal terreno. La madre, dopo averlo trovato, inizierà a mangiarlo come un parto all’inverso, e caduta in uno stato catatonico non aprirà al postino che finalmente aveva portato la lettera dall’america.
Ma mentre accade tutto questo c’è un’altra storia, quella di Jihum, e poi di suo padre, di una vecchia pistola, di una donna che preferisce suo marito morto per avere una pensione, di un soldato che non ne può più di guerra che non esiste e si fa di LSD.
C’è la Corea del Sud e il suo grido di dolore.

Unico neo, forse, una leggera confusione nella parte finale in cui si è rimbalzati da una scena all’altra con i vari personaggi alle prese con i propri problemi. Ma amen, me ne sbatto altamente, avercene di film così.
Desaparecidos in Italia, è passato soltanto su Fuori orario, il cui rippaggio è rinvenibile sul muletto.
Un meraviglioso pugno nello stomaco.

sabato 7 marzo 2009

Vado un attimo in bagno...

Ok.

My son, my son, what have ye done.

Werner Herzog.
David Lynch.

Michael Shannon.
William Dafoe.
Udo Kier.

Horror.
2010.

Ok, vado in bagno.

venerdì 6 marzo 2009

Aguirre, furore di Dio

Con Aguirre, furore di Dio (1972) comincia il sodalizio tra Werner Herzog e Klaus Kinski.
Il film è ambientato nel 1560 e racconta, attraverso il diario di un frate, le gesta di un gruppo di conquistadores guidati da Gonzalo Pizarro, fratello del più noto Francisco, che dispersi nella foresta amazzonica cercano la mitica El Dorado. Dopo essersi bloccati nella giungla e senza viveri, Pizarro decide di mandare 40 uomini a discendere il fiume per racimolare viveri e tentare di trovare El Dorado. Di questa spedizione fanno parte Don Pedro de Ursúa, Lope de Aguirre, il frate Gaspar de Carvajal, Don Fernando de Guzman e due donne. Più un gruppo di indios.
Ursuà, capo della spedizione, decide di tornare da Pizarro via terra ma viene imprigionato dagli altri uomini, con Aguirre in testa, che si ribellano e continuano ostinati la loro ricerca istituendo come capo il lardoso Don Fernando de Guzman. Il viaggio prosegue ma più passa il tempo e più le speranze si assottigliano. Alla fine resterà il solo Aguirre.

Non lo so, ma c’è qualcosa di magnetico in questa pellicola di Herzog, il problema è che non ho capito cosa. Seppur ambientato in un luogo esotico, il film è quanto di più lontano si possa immaginare da un film d’avventura. L’atmosfera è sottilmente surreale, grottesca, insolita. La cerimonia d’incoronamento di Don Fernando de Guzman e il processo ai danni di Don Pedro de Ursúa sono “strani”, l’aggettivo è banale, lo so, ma trasmettono un’inquietudine particolare, estranea al contesto in cui si svolgono. Come ne L’enigma di Kaspar Hauser (1974), la narrazione non è fluida, ma composta da tante piccole scene a sé stanti incollate tra loro dalla voce fuori campo del frate che scrive il suo diario, questa volta, però, non si ha la sensazione di assistere a sequenze slegate tra loro e al film, ma ad una struttura organica nella sua frammentarietà.
Particolare la figura di Aguirre. Il protagonista, che dà anche il titolo al film, è un personaggio principale atipico perché non fa niente, è passivo agli eventi che accadono, statico, immobile. L’unica sua aspirazione è quella di scoprire El Dorado, anche se fosse soltanto un luogo di alberi ed acqua. A lui non interessa l’oro ma il potere.
Allora, come spesso accade nei film di Herzog, è inevitabile sottolineare il ruolo della natura, deus ex machina della storia, che possiede una cifra eterna, immutabile, ma anche ciclica, in divenire.

Divina?

Non credo sia un caso che nella sequenza finale la mdp ruoti intorno alla zattera su cui Aguirre è rimasto solo insieme ad un branco di scimmiette. Sembra lo sguardo vorticoso di “qualcun altro”.
Poco prima Aguirre dice: “Sono il furore di Dio, e Dio è con me.” Ecco, in quel momento la natura pare inglobarlo.

So quanto un film possa nascondere tra i propri fotogrammi, ma ogni volta mi stupisco sempre.
Qui c’è la tesi di uno studente che interpreta, dal suo punto di vista, Aguirre.
Se avete visto il film leggetela per favore, ne vale la pena.

Il dvd della RHV contiene anche il documentario per la TV La piccola ballata del soldato (1984).

giovedì 5 marzo 2009

Lo scoglio e la pietra

Framura, un lembo di sabbia schiacciato tra il mare e i monti.
Io e mio fratello siamo seduti sopra quelle pietroline rossastre che guardiamo il mare andare e venire, e anche se la tramontana soffia forte, gli alberi alle nostre spalle sono immobili, sembra che aspettino anche loro una parola.
“Cosa dirò alla mamma?” La mia voce si confonde nel suono delle onde.
“Niente, mi farò sentire io a tempo debito.” Tira fuori un pacchetto di Lucky Strike stropicciato e lo mette sotto il mio mento.
“Lo sai che sto cercando di smettere.”
“Sarà la nostra ultima siga insieme per molto tempo da qui in avanti.”
In fondo ha ragione.
“E a lei cosa dirai?” Sento la gola raschiare, ma il fumo non c’entra.
“La verità.”
“Le farà male.”
“Lo so.”
“Lei ti vuole bene, le mancherai molto.”
Indica con la sigaretta accesa un punto in mezzo al mare: “Vedi quello scoglio? Da quanto è che sarà lì?”
“Non ne ho idea, immagino molti anni.”
“Ecco, pensa da quanti venti diversi è stato accarezzato, immagina quante volte il mare gli si è sbattuto contro, eppure è sempre stato fermo, ancorato al fondo. E adesso guarda questa pietra, è piccola, deforme, tutta graffiata e corrosa dal mare, probabilmente tra un paio di anni, trascinata dalle correnti, sarà scomparsa del tutto, ma questa piccola pietra ha vissuto più di quello scoglio laggiù.”
Resto in silenzio.
Adesso riesco a percepire il fruscio degli alberi. Quando mi volto mio fratello è già scomparso, sopra la piccola pietra c’è il suo pacchetto di Lucky Strike.
“Buon viaggio fratello, e che il mare ti porti lontano.”

martedì 3 marzo 2009

Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera

Fin dal titolo si comprende la struttura circolare di questo film grandioso. Si badi bene però, le stagioni non hanno una loro consequenzialità temporale, ma rappresentano le stagioni della vita.
La primavera è l’innocenza del bambino che esplora il mondo con tutta la curiosità che gli appartiene.
L’estate è l’adolescenza con l’incendio di passione che divampa nel giovane discepolo.
L’autunno segna l’età adulta con i suoi dolori, errori ed orrori.
L’inverno è la morte.
Infine, ritorna la primavera, e tutto ricomincia.

Non basteranno di certo le mie parole per descrivere la bellezza di una palafitta adagiata sulla superficie di un laghetto. E non basteranno nemmeno per spiegare di come delle porte aprano mondi infiniti che non hanno pareti.

Una barca, un gatto, un sasso.
Due uomini.
E poi l’acqua, l’aria, la terra ed il fuoco.
Non c’è altro. Eppure c’è tutto.

Una visione essenziale.

lunedì 2 marzo 2009

L'enigma di Kaspar Hauser

Nel 1828, a Norimberga, comparve all’improvviso un ragazzo dall’abbigliamento trasandato che portava con sé una lettera diretta al capitano della cavalleria di Norimberga. Incapace di parlare e con gravi problemi di deambulazione, era in grado di pronunciare soltanto un nome: Kaspar Hauser.
Del suo caso si occuparono in molti, ma nessuno riuscì a far luce sul mistero delle sue origini. Vennero avanzate alcune ipotesi: dal semplice vagabondo infermo di mente, al rampollo di un principe, fino ad essere considerato una figura chiave del Cristianesimo esoterico. Che cosa sia il Cristianesimo esoterico non ne ho idea, ma così parla Wikipedia.
Su di lui sono stati scritti più di 3.000 libri e realizzati due film. Uno dei due è questo del 1974 per la regia di Werner Herzog.
Il titolo originale è Jeder fur sich Gott gegen alle, che tradotto in italiano significa Ognuno per sé e Dio contro tutti, titolo curioso come del resto è il film stesso. In quanto sì che ci troviamo di fronte ad un'opera biografica, ma sono disseminati qua e là frammenti onirici in pieno stile Herzog, con splendidi campi lunghi come quello iniziale del campo di grano. Briciole immaginarie che mi hanno ricordato, tra l’altro, Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970, per la presenza di nani e cammelli), ed il documentario Fata Morgana del 1971.

Molti considerano L’enigma di Kaspar Hauser un capolavoro di Herzog. Con tutta l’ignoranza che mi appartiene, ritengo questo film ben lontano da tale connotazione.
Sebbene abbia intuito dei sottotesti: filosofici, c’è un qualcosa che richiama allo “stato di natura” di Hobbes, Locke e Rosseau; teologici, interessante la conversazione di Kaspar con il prete, e logici, l’indovinello del mentitore mette sempre in crisi, nel vederlo ho provato una grande noia.
Noia generata da una struttura narrativa frammentata in cui le varie scene si susseguono in maniera sconnessa come se si assistesse ad una serie di episodi a sé stanti. Vale come esempio la morte di Kaspar, che nel secondo di un cambio di scena si becca una pugnalata senza sapere né perché e né da chi.
La figura del selvaggio è ricca di potenzialità, poco si sa del suo passato e della sua vita. E questo è bene. Ma Herzog non riesce ad invogliare lo spettatore nell’immedesimarsi col protagonista. E questo è male. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che la figura di Kaspar è quasi scevra di ogni emozione, se si esclude quella per la musica, cosicché il trovatello appare come un automa sbigottito dal mondo che lo circonda. Il che è anche accettabile avendo vissuto per gran parte della sua vita in una stalla, ma ai fini della visione questa recitazione (giustamente) approssimativa pesa molto.
L’attore che interpreta Kaspar Hauser è Bruno S., lo stesso de La ballata di Stroszek (1977), un personaggio particolare con un passato scandito da riformatori e manicomi, a testimonianza del fatto che Herzog aveva grande cura nel scegliere attori “particolari” per le sue opere.

domenica 1 marzo 2009

Il buio nell'anima

Due anni dopo Breakfast on Pluto (2007), Neil Jordan cambia completamente registro mettendo in piedi un thriller cupo e drammatico, di cui però non scrive né il soggetto e né la sceneggiatura, con Jodie Foster protagonista nei panni di una conduttrice radiofonica, Erica Bain, che a pochi giorni dal matrimonio viene violentata da un gruppo di delinquenti insieme al suo fidanzato che ci rimette le penne. Distrutta dall’evento, una specie di ospite (il buio?) si insinua dentro di lei spingendola ad ammazzare un paio di balordi di New York, mentre il detective Sean Mercer (Terrence Howard) indaga su questi misteriosi omicidi.

L’inizio è un po’ derivativo. La coppietta perfetta che viene malmenata è uno dei topoi di qualunque rape & revenge che si rispetti. Fortunatamente il senso del film non risiede soltanto nella voglia di vendetta di Erica, ma è una riflessione di ampio respiro che tocca temi di notevole importanza come ad esempio il cambiamento che un evento tragico può portare in una persona, ma anche la legittimità di uccidere un essere umano pur indossando una divisa, e la questione della sicurezza nella strade, tema molto attuale nel nostro paese.
Insomma, non è soltanto un film di azione con pallottole e distintivi, in quanto viene dedicata una particolare attenzione all’introspezione della protagonista che, come più volte viene sottolineato, dopo il fattaccio ha avvertito un cambiamento che l’ha estraniata da se stessa, al punto che nel porsi come paladina della giustizia non prova nessun rimorso nell’uccidere alcune carogne tipo un rapinatore e un magnaccio.
Viene da storcere un po’ il naso sul fatto che la Foster si trovi sempre in situazioni di pericolo. Cioè esce col fidanzato e viene picchiata da dei teppisti, è sulla metropolitana ed assiste a una rapina, passeggia per strada e un tizio con un auto inizia ad importunarla. Ammazza che sfiga oh! Questi passaggi sono forzati e si sente, al pari di altre quisquiglie come il ritrovamento della ragazza che vendette l’anello (chi ha visto sa), o di come il detective alla fine trovi l’abitazione dello stupratore (idem come prima). Sono piccolezze, ma sommate pesano sul giudizio complessivo.
A controbilanciare ci sono ottimi momenti come il dialogo tra Erica ed il detective in cui il poliziotto parla apertamente del killer a cui stanno dando la caccia senza sapere che la persona che stanno cercando ce l’ha di fronte. Valida anche la scena in cui Jodie Foster deve riconoscere l’assassino del suo ragazzo.

Jodie Foster, dunque. Non la conosco granché come attrice, ma come vendicatrice non l’ho vista molto bene. Pur avendo i tratti del viso mascolini, non è riuscita a far emergere quella rabbia naturale dopo una tragedia del genere, e anche la sua lucida follia risulta parecchio calcolata. Terrene Howard fa lo “sporco” lavoro della spalla, e ci riesce devo dire. Certo è che questi poliziotti americani nei film sembrano tutti uguali.
È un buon film in fin dei conti, non eccellente perché da questo filone è stato attinto parecchio, ma pur avendo momenti che sanno di già visto, una solida filosofia di fondo tiene in piedi la baracca.